Emotechnology


La quantità di discorsi sulla tecnologia (digitale e non) è talmente elevata che non ce ne accorgiamo nemmeno più. Qualsiasi testata giornalistica ha una sezione dedicata all’high-tech, la tecnologia si mescola ai discorsi su educazione, didattica, politica, ambiente. Come se davvero sapessimo di cosa si tratta. Invece provate a darne una definizione. Allora? Avete pensato a “strumento, artefatto, meccanismo”? Seriamente vi pare che Internet possa rientrare in questi concetti? Allora proviamo con le negazioni: non organico? Non intelligente? Non biologico? Basta poco per trovare un controesempio, magari in un romanzo di fantascienza o nei laboratori di Mountain View. Il punto di partenza (errato) è l’idea che gli umani usano la tecnologia, mentre mi pare chiaro che non è più così: abitiamo nella tecnologia, come abitiamo la cultura o la lingua; ma la pensiamo ancora nei termini di qualche secolo fa: come nostro artefatto, o al massimo come estensione utilitaristica dei nervi e dei muscoli.

L’aspetto che mi solletica da un po’ di tempo è quello dell’emotività. Tecnologia fa rima con neutra efficienza, no? Eppure basta guardarsi agire per qualche minuto per vedere che la tecnologia entra nella sfera emotiva in maniera potente. Trattiamo – non da oggi, ma oggi in una maniera pervasiva – gli oggetti tecnologici con affetto o rabbia, ci innamoriamo e ci sentiamo traditi; insomma tutto lo spettro, meno che l’indifferenza con cui si prende in mano un compasso. Abbiamo fatto entrare la tecnologia nella sfera degli affetti, oppure siamo entrati nella sfera della tecnologia con tutta la nostra affettività. Ecco i robot carini, i telefoni sexy, i siti web irritanti.

Contemporaneamente, neghiamo questo affidamento e vorremmo continuare a pensare la tecnologia come uno strumento esterno che se ne sta lì, tranquillo. E così siamo condannati a non capirla.

 


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