Spiegare l’IA

Quando ero giovane avevo letto che secondo Wittgenstein (che andava molto di moda a Villa Mirafiori, l’esclusiva villetta liberty dove il re d’Italia aveva parcheggiato la sua moglie morganatica e poi sede della facoltà di Filosofia della Sapienza, dove i ragazzi si iscrivevano fondamentalmente perché era anche sede di Lingue, e a Lingue notoriamente si iscrivevano solo le ragazze), dicevo, secondo Wittgenstein, quello che scriveva le Ricerche Filosofiche negli anni ’40, il significato delle parole è il loro uso. Le parole sono gettoni che si possono usare in giochi diversi. Quindi in un gioco hanno un uso, in un altro gioco un altro uso. Era una critica alla concezione di significato come aura magica delle parole, come contenuto delle parole, come proprietà statica delle parole. E anche alla concezione di significato come rapporto tra parole e mondo (l’insieme dei fatti), che lo stesso Wittgenstein aveva sostenuto in gioventù e che gli aveva fatto abbandonare la filosofia.

A me, giovane come il giovane Wittgenstein, pareva una critica non abbastanza radicale.

Ok, dicevo, l’uso. Ma qual è il significato della parola “significato”?

Naturalmente, il suo uso. Allora vediamo: come si usa la parola “significato” e quando? Risposta: nella vita reale, non nei dialoghi filosofici, quando qualcuno non sa come usare una parola chiede spiegazioni: “Scusa, qual è il significato di X?”. Allora: le spiegazioni sono il significato delle parole.

Al di fuori dalla filosofia e della linguistica teorica, l’unico caso in cui si usa la parola “significato” è nei vocabolari, a scuola, con i bambini, con gli stranieri. E come si spiegano le parole? Dipende dal contesto: con altre parole, con parole di un’altra lingua, con i gesti, con i disegni. Dipende da chi spiega a chi. Il resto del tempo le parole non “hanno” un significato, hanno solo tanti usi diversi.

Quindi il significato delle parole non è il loro uso. Il significato è solo una domanda.

La parte interessante è che la spiegazione non è rivelazione di una relazione unica, corretta, vera; è solo il tentativo di censire dei modi d’uso finché – per opera del soggetto che apprende, certo non di chi spiega – da tutte queste immagini se ne compone una sola, come da tante cartoline che rappresentano il Colosseo da punti di vista diversi si compone l’immagine mentale del Colosseo.


Questi anni saranno ricordata in futuro come la stagione di cecità selettiva per cui tanti intellettuali allegramente si beano delle performance divertenti dei modelli di machine learning in diversi settori (illustrazioni, musica, testi) senza quasi nessun attenzione per quello che sta per succedere (con le dovute eccezioni: Marco Guastavigna è uno dei pochissimi che continua a riflettere sperimentando).
Qualche tempo fa ho visto una trasmissione su Arte (la tv franco-tedesca che in genere apprezzo per il livello mai banale) in cui nel “salotto” di Elisabeth Quin (l’insopportabile padrona di casa intellò franco-francese che più francese non si può) si è parlato di OpenAI e della sua capacità di generare testi argomentativi. Problema: ma così gli studenti si faranno fare le dissertazioni. E infatti una dell’équipe racconta che “si è finta studentessa alle prese con un esame e ha chiesto la redazione di un tema sull’influsso dell’esistenzialismo sulla cultura presente”. Meraviglia: l’IA ha scritto un bel componimento diviso in punti numerati (ai francesi piace un sacco, ma si vede che ChatGTP è andato a scuola da quelle parti, perché procede per prima di tutto-in secondo luogo-inoltre-infine) in cui parla dell’influsso di Sartre sullo stilista Alexander McQueen. E giù a ridere, a condannare, a riportare l’irritazione dei professori. Nessuno si domanda chi li sviluppa, perché, nessuno solleva il problema di cosa ci si farà domani con questi strumenti. Nemmeno un dubbio del tipo: “forse sarà ora di cambiare la maniera di valutare le competenze degli studenti e abbandonare queste dissertazioni idiote, visto che le può scrivere chiunque.”. O una domanda: che significa sapere scrivere una dissertazione? E’ questione di orecchio?

Quando ci prenderanno in giro, tra cinque anni, quando facebook sarà invaso da bot totalmente indistinguibili da umani, ricordatevi che ve l’avevo detto.


Stavo cercando di capire il funzionamento dei programmi di text-to-image (txt2img) che fanno di moda in queste settimane: Dall-e 2, Midjourney & co. Invio qualche manciata di parole ad un motore di ricerca. Non mi produce un’illustrazione (come potrebbe e senz’altro farà a breve), ma mi indirizza ad una serie di pagine web. Tutte, ma proprio tutte, hanno per titolo cose come “Come funziona il machine learning”, “Come funziona l’AI”, “Come funziona il txt2img”. Clicco speranzoso e leggo: si tratta di tutorial che spiegano come si usano questi servizi, non come funzionano.

Ma non è un caso.

I programmi per computer possono essere pensati come fatti di tre strati: i dati, l’interfaccia utente, la struttura che connette i dati tra loro e con interfaccia. Bene: tutti questi tutorial parlano di come funziona l’interfaccia: come si clicca, come si scrive, cosa risponde, come si scarica l’immagine. Nessun parla dei dati (se non per dire che sono taaaanti tanti, mille mila miliardi di parametri solo per descrivere un testo). Nessuno parla della struttura, cioè di come il modello abbia messo insieme questi dati in relazioni tali da poter generare immagini o testi verosimili. Non lo fanno perché è complicato, perché per spiegarlo bisognerebbe studiarlo, o perché in fondo nessuno lo sa veramente, visto che questi aggeggi non nascono per essere capiti, ma per produrre dei risultati. E poi in fondo alle persone normali interessa usare, non capire.

Questo però sta spostando l’uso della parola “spiegare” in ambito tecnologico-scientifico. Dall’uso classico, in cui spiegare significa mostrare come dagli assiomi si arriva ai teoremi o dai principi ai risultati degli esperimenti, si è arrivati all’uso moderno in cui spiegare significa mostrare la superficie dove si scivola, la possibilità d’uso senza stress. Sono i libretti di istruzioni.

Quindi ora abbiamo una tecnologia che ci piace pensare complessa, complicatissima, anzi intelligente, ma rinunciamo a capire come funziona, contentandoci delle “spiegazioni” del suo uso. Più è intelligente lei, più noi siamo dispensati dal capirla.

Questo è già successo in passato: si chiamava magia e serviva a tenere qualcuno sotto qualcun altro.


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