C’è la vecchia versione per cui la filosofia si occupa di domande e non di risposte. E’ un modo di salvarla: così non si può mai dire se ha torto o a ragione.Una domanda non è giusta o sbagliata, al limite può essere interessante o banale. Anzi su questa definizione si costruiscono meta-teorie educative: sono le domande che rendono intelligenti, le risposte le sanno dare tutti, bisogna insegnare a fare domande, eccetera. Come se le domande non avessero un costo e come quello che ci permette di sopravvivere, alla fine, non fossero le risposte. Insomma tutti filosofi e nessun medico.
Preferisco quella per cui la filosofia cerca di capire nel senso di generalizzare, di definire le categorie superiori; per farlo, cerca le somiglianze, anche tra cose che sembrano distanti. Per questo la f. sta “sopra” le altre discipline, non perché sia più importante ma proprio perché quello è il ruolo che si è assegnata, quella è la sua posizione preferita: stare sopra per cercare di trovare le analogie.
Così facendo dice stupidaggini, almeno dal punto di vista delle discipline. E’ approssimativa, scambia fischi per fiaschi. Usa simboli invece di segni. Allarga la copertura semantica di termini disciplinari al di là dei confini della loro applicabilità.
A me, per esempio, è sempre piaciuta l’entropia. Non ho mai capito esattamente il suo significato fisico, anche se l’intuisco; però applico il termine ovunque: entropia informativa, entropia cognitiva, entropia sociale, … Arrivo al punto di credere che l’entropia, lei, sia un concetto generale che ha una sua parziale applicazione nella fisica. Così pure faceva Platone ai suoi bei tempi: invece di tracciare la linea orizzontale, analogica, tra i singoli cavalli, tracciava quella verticale, deduttiva, dal Cavallo ai cavalli. L’altra linea verticale, quella induttiva, la cancellava accuratamente dalla lavagna. Che poi farlo per i nomi comuni di cosa è comodo e francamente sarebbe difficile pensare un altro modo, una lingua senza plurale e senza nomi collettivi; ma lui lo faceva per i nomi astratti, come il Bene.
Mettiamo che gli psicologi dicano: l’intelligenza è X e si misura con questo test. Arriva il filosofo e comincia a parlare dell’intelligenza degli animali (a cui quel test non è applicabile), delle piante (idem), del pianeta (!); e poi delle macchine, dei robot, dei computer. “Per estensione”, dice. Ma poi l’Intelligenza finisce per acquisire una sua esistenza indipendente.
Il problema è che le analogie andrebbero dichiarate, con apposite etichette gialle. Ma sarebbe scomodo nel discorso, ingombrerebbe la strada pulita della retorica. Immaginate se ogni volta uno dovesse dire “le macchine sono intelligenti – ma nel senso esteso di intelligenza eh, no come quando uno dice ‘Socrate è intelligente’; nel senso del test di Turing – dunque dicevo le macchine pensano – ma non nel senso …”.
I filosofi allora giocano a ridefinire la parole di uso comune. L’intelligenza, per esempio, è “la capacità di migliorare l’ordine in un ambiente usando il minimo di risorse”. Questa è una definizione generale, di cui le altre intelligenze (quelle dei saccaromiceti e delle comete etc) sono casi particolari. E’ una definizione funzionale, operativa; va usata con attenzione, va verificata. E’ utile? permette di fare qualcosa in più? di capire il perché di certi fenomeni ? Allora usiamola; altrimenti lasciamo stare.
Il guaio più grosso (se di guaio si può parlare in queste cose tutto sommato ridicole) è che dopo i filosofi – che insomma un po’ di attenzione finiscono per farla – arrivano tutti gli altri e usano le analogie senza pensarci, forse senza saperlo. E la usano al contrario: siccome io sono intelligente e faccio così, allora tutte le cose intelligenti sono come me. Se io ho ricordi, desideri, paure, allora anche loro. A questo punto gli oggetti intelligenti diventano soggetti, che si riproducono, che vogliono dominare il mondo.
Patatrac, la frittata è fatta.