Google e la ginestra

Sentito ieri alla radio:

– “Adesso Giovanni vi darà l’indirizzo del sito di cui stiamo parlando”

– “Ok, Carla, è www…”

– ” No, dai, basta andare su Google e scrivere…”

La URL – il nome del sito – è diventata praticamente ininfluente. Se devo visitare il sito di Repubblica non perdo tempo a scrivere l’indirizzo preciso (http://www.repubblica.it) ma scrivo “repu” nello spazio degli indirizzi del browser, e se prima non viene autocompletato usando la mia cronologia arriva la pagina di Google che riporta repubblica.it come primo risultato. Clicco e via. E’ comodo, più veloce. Non mi devo ricordare esattamente come si scrive, non devo impicciarmi con dettagli ridicoli come il dominio di primo livello (it org com net) o il prefisso del protocollo (http ftp smtp …).

Nella lontana era del pregoogliano inferiore le cose erano diverse. Come erroneamente si dice ancora nella pagina di Wikipedia italiana dedicata al World Wide Web:

“La visione di una pagina web inizia digitandone la URL nell’apposito campo del browser web oppure cliccando su un collegamento ipertestuale presente in una pagina web precedentemente visualizzata o in altra risorsa come ad esempio un’e-mail. Il browser web a quel punto dietro le quinte inizia una serie di messaggi di comunicazione con il web server che ospita quella pagina con lo scopo di visualizzarla sul terminale utente.”

Non è più così. Si dovrebbe correggere come segue:

“La visione di una pagina web inizia digitandone un pezzo del titolo nell’apposito campo del browser web. Il browser web a quel punto invia la stringa a Google, che acquisisce l’informazione (ad esempio per profilare l’utente), cerca nei suoi database e fornisce una lista di URL che contengono o sono collegati a quella stringa. Cliccando su uno dei link proposti, il browser dietro le quinte inizia una serie di messaggi di comunicazione etc etc.”

Non voglio qui entrare nella questione delle informazioni – a volte non necessarie – regalate a Google. Mi interessa una questione più “filosofica” collegata a questa piccola pigrizia: ho l’oggetto e lo specchio, ma guardo solo lo specchio. Come se lo specchio – ogni specchio – non fosse deformante. Al punto poi da dimenticarmi dell’oggetto. Al punto magari da rimanere preda di ridicoli trappole via mail (“clicca qui”: ma qui dove? dove punta questo link?).

Nel mondo ci sono le cose: alberi, pianeti, libri, film. Poi ci sono le rappresentazione delle cose, di cui una parte importante è costituita da insiemi di parole sulle cose: gli articoli di giornale, le recensioni dei film, le chiacchiere al bar, i commenti nei blog, i tweets.

Sono due tipi di cose diversi. In alcuni casi la differenza è netta: la pianta della ginestra è una cosa, una foto di una ginestra un’altra. In altri è più complicato, in particolare quando le “cose” sono esse stesse dei testi, e ancora di più quando esiste una versione digitale di questi testi che è accessibile via Internet. Per esempio, la Ginestra (il poema leopardiano) è una cosa (una copia digitale la si trova qui: http://it.wikisource.org/wiki/Canti_%28Leopardi_-_Donati%29/XXXIV._La_ginestra); la pagina di Wikipedia sulla Ginestra (http://it.wikipedia.org/wiki/La_ginestra) o le parafrasi ad uso scolastico (come http://www.oilproject.org/lezione/leopardi-la-ginestra-parafrasi-pessimismo-leopardiano-3662.html) sono un’altra cosa.

Nel senso che hanno autore diverso, dicono cose diverse, sono state scritte per scopi diversi. Cose che si usano diversamente, che soddisfano bisogni diversi. Se devo leggere la Ginestra mi serve il testo originale; se devo sapere cosa si è detto nel tempo di quel componimento, mi servono i commenti dei critici. Magari ci sono occasioni in cui mi servono entrambi, o uno può supplire all’altro (poniamo, perché devo scrivere un tema per l’ora di Italiano di domattina e sono un po’ in affanno). Ma restano due cose diverse e potrei volere l’una o l’altra separatamente, non mescolate tutte insieme in migliaia di risultati.

Ora a Google (ma varrebbe per qualsiasi altro motore di ricerca) non posso segnalare questa differenza di intenzione, non posso scegliere. Posso decidere che voglio trovare qualcosa sulla Ginestra, e posso persino dire in che formato: voglio un testo o un’immagine o un video o una mappa. O persino un libro (more>books). Ma sto sempre cercando “cose che si riferiscono a”, non “la Ginestra” in sé.

Prima di internet, se cercavo una cosa, voleva dire che mi interessava quella cosa (diciamo l’originale) e magari andavo in biblioteca o in libreria a cercare le opere complete di Leopardi; se invece volevo sapere cosa la gente dice di quella cosa andavo a cercare un manuale di storia della Letteratura, o una rivista di Italianistica, o andavo a lezione. Ora ho la possibilità di accedere a quasi tutte queste cose da casa tramite un unico canale (compresa magari la lezione su qualche MOOC). Ma l’impressione che ho è che non si faccia più la differenza, tanto che è anche difficile per me scriverne e farmi capire.

All’origine c’è il fatto che un motore di ricerca prende la stringa di caratteri che gli forniamo e la confronta con quello che ha nel database. Ed è normale che ci siano molti più record di pagine che parlano della Ginestra che non recordi di copie digitali dell’originale. E che di originali ne basta uno, mentre di commenti che ne possono essere milioni. E che l’originale (la copia del testo originale) non è marcata in maniera diversa dal resto.

Ma il punto è che questa configurazione tecnica ha portato ad un’abitudine mentale nuova. Non si parla qui della questione generica “internet e i cellulari allontanano i giovani dal mondo reale”, perché qui non è questione di età – Google lo usiamo semplicemente tutti – ma del fatto che l’enorme massa di informazioni disponibili ha reso inevitabile l’uso di un motore di ricerca, e che la maniera di funzionare di questo ha talmente cambiato le nostre abitudini da renderci indifferenti alla distinzione tra quello che diciamo di una cosa e la cosa stessa.

Certo è difficile sostenere che la ginestra abbia un’esistenza indipendente da quello che pensiamo e diciamo di essa. Il tavolo di Berkeley ci ricorda che non abbiamo un accesso privilegiato alla realtà. E si, non sapremo mai se l’uomo è andato davvero sulla Luna e se la guerra in Iraq ha davvero avuto luogo, perché abbiamo solo rappresentazioni di questi eventi. Ma resta il fatto che in un contesto normale sappiamo distinguere abbastanza bene tra cosa e rappresentazione, in ogni caso abbastanza da sopravvivere. Normalmente sappiamo distinguere senza pericolo tra un’esplosione in cielo (di un fuoco di artificio) e un film di guerra, tra le Operette Morali e un manuale di liceo, tra una foto del giardino in primavera e un rametto in un vaso. Dovremmo ugualmente saper distinguere, ed essere interessati a farlo, tra una versione digitale di una poesia e tutto quello che è stato detto su di essa. Come dovremmo saper distinguere tra un indirizzo internet e le informazioni che Google ci restituisce a proposito di quell’indirizzo.

Ma temo che questo piccolo artificio dei motori di ricerca favorisca (ancora di più) una visione generica che non è interessata a distinguere tra gli ordini delle cose, che non è interessata al confronto e alla valutazione personale, che assume tutto come originale. Con quel che ne consegue.

 


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