Trasparenze

Le tecnologie hanno una storia, anche le più recenti – storia che tendiamo a dimenticare, scambiando l’attuale per il perenne, il contingente per il necessario. Ci sono ormai tanti studi sulla storia dell’informatica, percepita o prodotta; molti (da Bolter e Grusin in poi) sembrano indicare una tendenza particolare, tipica della storia degli artefatti digitali: quella verso la trasparenza. E’ una storia che parla di interfacce ma anche di modelli di servizio, fino a invertire il rapporto tra cliente e fornitore.


1. Quando si faceva una ricerca su web, una volta, si scrivevano le parole chiave: “printer”, “cartridge”, “ink”. Solo gli anziani come me se lo ricordano. Era il tempo in cui si diceva “i motori di ricerca”, al plurale.
Cercavamo la pagina HTML in cui si parlava di quella stampante, di quella marca e modello, con il listino delle cartucce di ricambio. Scrivevamo le parole in inglese, perché era probabile che quella fosse la lingua di chi aveva scritto quella pagina HTML.


L’idea era: l’informazione che cerco deve stare in una pagina HTML in cui l’autore ha scritto da qualche parte (soprattutto in certe parti apposite, come la descrizione, il titolo o le keywords) una o più di quelle parole. Ci si appoggiava esplicitamente sul modello della ricerca in biblioteca: quando si cerca un libro ci si basa su alcuni termini: il titolo, l’autore, l’editore, l’anno. So che esiste quel libro e so che ha quelle caratteristiche, ma non so dov’è.

2. Poi il motore di ricerca si è messo di traverso e ha detto: “No, caro utente, non cercare di immaginarti al posto dell’autore: lo so io di cosa parla una pagina HTML. Tu scrivi a parole tue quello che ti interessa e io cerco nel mio archivio le pagine che ho marcato con quelle parole o con parole collegate”. Così vengono fuori molti più risultati e la ricerca diventa più democratica, accessibile anche a chi non ha un modello chiaro dell’oggetto che sta cercando. Con l’ulteriore vantaggio che le parole che l’umano usa per la ricerca possono essere in una lingua diversa da quelle usate dall’autore originale: stampante, cartuccia, inchiostro. Naturalmente si possono usare anche derivati, sinonimi, paronimi etc: “stampare”, “laser”, “carta”. Il motore ha una tabella che mette in relazione queste parole, con dei pesi diversi che rappresentano la probabilità che quella parola compaia nella pagina che parla di cartucce di ricambio. Ci possono essere ambiguità (“cartuccia” potrebbe essere presente in una pagina che parla di armi) ma più parole si mettono e più l’intersezione si avvicina a quello che abbiamo in testa.

Naturalmente quando qui sopra scrivo “il motore di ricerca…” non intendo parlare di un nipote di HAL 9000, di un essere intelligente con una volontà propria di dominare la specie umana, e nemmeno dei programmatori che nascosti nei garage pestano su tasti per controbilanciare le proprie insoddisfazioni sessuali. No, parlo di società con rispettabili consigli di amministrazione che scelgono una direzione di business al posto di un’altra. Ma è più comodo far finta che si tratti di un personaggio di una storia. Per cui continuiamo così.

Già qui si è rotto una parte del patto originario e si è incrinata la metafora. La pagina che ci propone non è strettamente quella che noi stiamo cercando, cioè non ha dentro quelle parole lì. E’ una pagina che (lui ha decretato che) parla di quegli argomenti. Se, una volta trovata, ci fossimo presi la briga di andare a leggere il codice HTML di quella pagina forse non avremmo trovato nessuna delle parole originali.
Dall’altro lato, il motore scoraggia gli autori della pagine HTML dall’inserire le parole chiave nel titolo o nelle keywords o nel testo, perché, dice, così si potrebbero “drogare” i risultati, e far venir fuori pagine che in realtà non parlano di stampanti e inchiostro. Dopo anni di consigli, di manuali, di corsi di formazione su come bisogna scrivere le pagine HTML per farle trovare dai motori di ricerca, ora gli autori sono stati esautorati: la decisione su cosa mostrare è solo del motore di ricerca. Come se il bibliotecario ci consegnasse un libro che apparentemente ha un titolo diverso, è di un autore diverso da quello che cerchiamo, ma secondo lui in fondo in fondo parla proprio di quella cosa lì che a noi interessa.

Come fa il motore di ricerca a sapere che quella pagina parla di cartucce se la parole “cartucce” non compare? Una volta si accarezzava il sogno di un web semantico, cioè di un web in cui i paragrafi di testo, ma anche le immagini e i video, sarebbero stati marcati con un’etichetta che ne descrivesse il significato, presa da una grande mappa con tutti i significati del mondo. Ma questo richiedeva autori volenterosi con tanto tempo a disposizione. Invece, più semplicemente, il motore di ricerca tiene traccia di quanto gli utenti sono soddisfatti quando lui gli presenta i risultati. Se tanti utenti ritengono che la pagina A parli dell’argomento X che è la parola che hanno cercato (tant’è che seguono il link, la leggono) allora, dice il motore, vuol dire che quella pagina A parla proprio di X. Noi ci fidiamo del motore di ricerca, ma lui si fida di noi.


3. Più tardi il motore di ricerca ha deciso che noi umani – invece di concentrarci sulle parole che devono descrivere la pagina HTML che stiamo cercando – dobbiamo concentrarci solo sul bisogno, anche se non abbiamo un’idea precisa di cosa lo dovrebbe soddisfare. Un po’ come quando si va dall’oracolo, dal medico o dall’avvocato: mi fa male qui, ma non ho idea della medicina che mi serve. Il vicino mi rompe, ma non so come fare per mandarlo in galera. Di qui la necessità di sviluppare interfacce in grado di capire il linguaggio naturale e rispondere in linguaggio naturale, possibilmente a voce e non per iscritto. Interfacce che vanno testate, sperimentate, su larga scala. Di qui la disponibilità di servizi conversazionali gratuiti, come quelli proposti da OpenAI (ChatGPT), che saranno le prossime interfacce standard ai motori di ricerca. Infatti gli esempi di interazione che vengono suggeriti sono cose di questo tipo: “Sto organizzando un viaggio con i miei amici a settembre. Quali sono le spiagge a 3 ore di volo da Londra Heathrow?”. Oppure: “Cosa dovremmo fare quando arriviamo?” . L’esempio, che a me sembra terrificante, è autentico (https://www.bing.com/new#faq) .

4. Il passaggio successivo è quando il motore di ricerca ci propone il risultato della ricerca prima che formuliamo anche solo l’idea della ricerca, prima che esprimiamo il bisogno. Lui sa che noi abbiamo bisogno di una nuova cartuccia della stampante prima di noi. Lo sa perché in passato abbiamo fatto ricerche per trovare il negozio dove si comprano le risme di carta riciclata o perché l’abbiamo scritto in qualche chat; lo sa perché abbiamo comprato la carta tramite un sistema di acquisti via web; lo sa perché la stampante è collegata a internet e comunica con il produttore che è finita la carta: grazie IoT. Lo sa perché la quantità di carta che buttiamo è superiore alla media nel quartiere, tenendo conto dell’età media degli abitanti della casa (no, questo ancora no, almeno credo).


Insomma: da una fase in cui la ricerca di un documento HTML era una metafora della ricerca di un libro in una biblioteca siamo passati ad una in cui la ricerca è trasparente, fino ad arrivare ad una fase in cui non c’è più la ricerca, ma solo il prodotto. E’ l’apoteosi della trasparenza, l’annullamento (apparente) dell’intermediazione.

Comodo, no? Si diminuisce la fatica, mentale più che fisica; si abbassa il livello culturale necessario per accedere alle informazioni; si democratizza il sapere e il comprare.
Ha anche degli effetti immediati meno visibili (per esempio, sulla scelta dei risultati da mostrare sulla base di contratti tra motore di ricerca e produttori di beni: la vecchia pubblicità va in pensione). Forse l’effetto principale – se si pensa ai dati sulla nostra navigazione, sulle scelte, sugli acquisti, sui commenti e i suggerimenti che ci scambiamo nelle nostre reti sociali – è proprio la trasformazione dei clienti in prodotti. Noi siamo i prodotti che vengono venduti e ii venditori di cartucce per stampanti sono i clienti.

Questo processo ha anche degli effetti a lungo termine altrettanto invisibili, come quello di farci considerare tutto il tempo speso per capire il funzionamento di un artefatto, per controllare il meccanismo più in profondità, del tempo perso. La trasparenza come modalità generale, culturale, estetica, finisce per negare ogni forma di curiosità, ogni bisogno di comprensione. Di qui alla fine dell’educazione il passo non è molto lungo, temo.


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