Dunque si inizia: in presenza ma lontani, a distanza ma connessi. I professionisti, le aziende, le associazioni, le fondazioni, le università e le scuole devono essere pronti in caso di X (con X=lockdown totale, ma anche dimezzamento dei docenti o degli studenti). Nella Scuola e nell’Università italiane sono pochi (da quello che vedo) quelli che colgono l’occasione per riformare la maniera di apprendere e insegnare una volta per tutte, per esempio abbandonando il modello trasmissivo e adottandone uno di costruzione collettiva di conoscenza. Pochi hanno utilizzato questi mesi per risistemare il “capitale” di metodi, risorse, informazioni esistente ma frammentato e nascosto nelle teste o nei file dei docenti, in modo da renderlo accessibile, manutenibile, incrementabile, insomma usabile davvero. Ancora meno, mi pare, hanno ripensato la valutazione, arricchendola con elementi che derivano proprio dall’esistenza di un piano digitale comune dove studenti e docenti si muovono insieme.
Adesso però bisognerà scegliere il sistema di videoconferenza (che come si sa è IL canale deputato a tutto: formare, valutare, controllare, supportare, selezionare, anche se probabilmente nessuna scuola italiana è oggi in grado di reggere la connessione contemporanea di tutti gli studenti e docenti) ed, eventualmente, la piattaforma dove collocare i “contenuti didattici da far fruire”. Sic.
Quale piattaforma? Beh, naturalmente lo decide il dirigente, che però non necessariamente ha tutte le conoscenze tecniche e legali che servono. Forse si fa consigliare dall’animatore digitale, forse da un consulente esterno, oppure dai colleghi dirigenti più in vista. Oppure va sul sito del MIUR e poi torna trionfante: “Bisogna usare X, lo dice il Ministero!”. Allora, parliamone.
Nella pagina https://www.istruzione.it/coronavirus/didattica-a-distanza.html si trovano solo tre proposte di piattaforma: Google Suite, MS Teams e TIM Weschool. Visto? Ma se cliccate sul bottone “Continua a leggere” (che sarebbe stato meglio chiamare: inizia a leggere) magicamente appare un testo che dice:
Da questa sezione è possibile accedere a: strumenti di cooperazione, scambio di buone pratiche e gemellaggi fra scuole, webinar di formazione, contenuti multimediali per lo studio, piattaforme certificate, anche ai sensi delle norme di tutela della privacy, per la didattica a distanza. I collegamenti delle varie sezioni di questa pagina consentono di raggiungere ed utilizzare a titolo totalmente gratuito le piattaforme e gli strumenti messi a disposizione delle istituzioni scolastiche grazie a specifici Protocolli siglati dal Ministero. Tutti coloro che vogliono supportare le scuole possono farlo aderendo alle due call pubblicate dal Ministero che contengono anche i parametri tecnici necessari.
“[…] tutte le piattaforme devono essere rese disponibili gratuitamente nell’uso e nel tutorial; la gratuità va intesa sia nella fase di adesione ed utilizzo dello strumento sia al termine di tale fase. Nessun onere, pertanto, potrà gravare sulle Istituzioni scolastiche e sull’Amministrazione;
per le piattaforme di fruizione di contenuti didattici e assistenza alla community scolastica: sicurezza, affidabilità, scalabilità e conformità alle norme sulla protezione dei dati personali, nonché divieto di utilizzo a fini commerciali e/o promozionali di dati, documenti e materiali di cui gli operatori di mercato entrano in possesso per l’espletamento del servizio;
per le piattaforme di collaborazione on line: qualifica di “cloud service provider della PA” inerente alla piattaforma offerta, ai sensi delle circolari Agid n. 2 e 3 del 9 aprile 2018.”
Insomma, prima di tutto servizio gratis ma con assistenza. Poi una divisione che a me sembra un po’ sospetta:
da un lato piattaforme per la fruizione di contenuti didattici e assistenza alla communità scolastica, che devono soddisfare requisiti più stringenti in termini di sicurezza, protezione della privacy;
dall’altro le piattaforma di collaborazione online, che NON hanno bisogno di soddisfare questi requisiti.
Indovinate in che categoria vanno certe piattaforme gratuite a cui sicuramente state pensando adesso? Chi si può permettere questo tipo di offerta gratuita a tutte le scuole italiane? E’ un modo chiaro per estromettere ogni piccolo fornitore locale, ogni proposta fatta una piccola cooperativa di ex-studenti dell’istituto tecnico. E’ un modo per aumentare il monopolio e per rinunciare a promuovere una crescita del comparto in Italia. Ne ho già parlato qui. A parte il fatto che ci sono dei requisiti di legge (GDPR) che nessuna circolare o nota ministeriale può aggirare, non c’è traccia del requisito “a codice sorgente aperto”. Che non è una bizza di qualche hacker fuori tempo massimo: la legge del 7 agosto 2012, n. 134 ha modificato l’art. 68 del codice dell’amministrazione digitale introducendo per tutta la PA l’obbligo di effettuare “analisi comparativa di soluzioni“, comprese quelle basata su software libero o codice sorgente aperto. Inoltre, nelle Linee Guida per l’adozione e il riuso del software da parte delle PA che sono in vigore dal 9 maggio 2019, si aggiunge, tra i criteri di valutazione, l’uso di dati aperti, di interfacce aperte e di standard per l’interoperabilità. Sarebbe ragionevole che questi criteri venissero ricordati, perché non sono curiosità o suggerimenti benevoli. Anche a prescindere dalla questione recente del Privacy Shield statunitense e della sentenza della Corte Europea che lo invalida. Insomma, caro Dirigente, vogliamo farla, questa valutazione comparativa?
Sempre dalla pagina del MIUR si accede ad altri elenchi di iniziative, servizi, insomma cosa che dovrebbero aiutare le scuole sull’onda del #damosenamano. Come https://www.istruzione.it/coronavirus/didattica-a-distanza_altre-iniziative.html dove ci sono delle pubblicità a società e servizi, oppure quello delle proposte universitarie https://www.istruzione.it/coronavirus/didattica-a-distanza_uni-afam.html dove si trova lo stesso livello di “valutazione”. Se poi si vuole raggiungere l’apice, si legga l’elenco dei servizi di solidarietà digitale offerti questa volta da MITD e Agid, ma linkato sempre nella pagina MIUR: https://solidarietadigitale.agid.gov.it/#/ dove c’è, francamente, la qualunque. Insomma: a oggi, non c’è uno straccio di niente che dica che la piattaforma X è adatta mentre la Y no.
Repubblica online, Stazione Luna, rubrica a cura di Riccardo Luna. L’articolo di oggi 19 Agosto 2020 si intitola “Lens, la app che ti farà i compiti di matematica (e che si svela il senso di Google)” (proprio così, magari lo correggeranno in seguito). L’ho letto subito con grande interesse, conoscevo Lens ma non sapevo che si occupasse di educazione. La frase finale del titolo, è ancora più attraente: Lens si svela essere il senso di Google? Premetto che non ce l’ho particolarmente con Luna, ma che anzi gli sono grato perché i suoi brevi post mi permettono di riprendere in mano e approfondire delle questioni importanti, anche se il modo in cui le presenta è sempre un po’ troppo semplice e non mi convince del tutto. Forse non è un caso, è la forma che ha scelto per la sua rubrica, e non gli si può chiedere di scrivere diversamente. In poche righe, e per un lettore medio, deve presentare un pezzo del mondo di oggi come se fosse domani, per poi chiudere con una strizzatina d’occhi per dire che lui non ci crede fino in fondo. Stavolta parla dell’intelligenza artificiale applicata all’educazione. Riporto il suo testo integralmente, in corsivo; il resto sono i miei commenti.
Sono abbastanza
sicuro che la app preferita dai ragazzi in autunno non sarà un
social network di selfie e stories tipo Instagram, o di balletti e
sfottò come Tik Tok, e nemmeno l’eterno Whatsapp. Sarà una app di
matematica. Una app che risolve i compiti di matematica più
complessi semplicemente inquadrandoli con la telecamera dello
smartphone. Sarà Google Lens. Google Lens esiste da un paio di anni
ormai, ma la funzione “risolvi il problema di matematica” è
appena stata annunciata.
Google Lens fa parte dei servizi di Google a doppio senso. Ovvero: inquadrata un’immagine, fornisce un aiuto nella ricerca di immagini similari, collegandole poi ad informazioni testuali. Ma contemporaneamente, utilizza l’esperienza degli utenti che l’hanno scaricata (oltre un milione, secondo Play) per migliorare il riconoscimento delle immagini, premiando la risposta scelta dagli utenti umani in modo che abbia più probabilità di essere riproposta in futuro. E’ quello che succede con i Captcha che ci chiedono di riconoscere immagini di ponti, autobus e strisce pedonali acquisite tramite Google Street View per dimostrare che siamo umani, e nel frattempo migliorano il servizio di riconoscimento delle immagini e chissà, forse anche la capacità dei piloti intelligenti del futuro.
C’erano già
altre app che promettevano di fare la stessa cosa, ma con Google è
diverso.
In effetti, il servizio di “risoluzione dei problemi di matematica” non appartiene a Lens, ma a Socratic. Anche questa app esisteva da tempo, inizialmente solo per IOS, e si limitava ad accettare domande e a fornire risposte prese da Wikipedia, da Yahoo Q&A e da altre fonti. Da gennaio 2017 Socratic viene dotata anche di un motore capace di risolvere espressioni ed equazioni, e di mostrare i passaggi necessari (semplificazione, spostamento di un termine da un lato all’altro dell’equazione). Nel 2018 la società che la produce viene acquistata da Google per una somma non dichiarata. La storia di Socratic però la vediamo più avanti.
Nel video di presentazione dell’epoca (ancora disponibile su Youtube ) si vede una ragazza alle prese con una pagina di compiti. Sul foglio la ragazza ha affrontato prima un’equazione semplice:
3 (y+2) = 16
E qui la ragazza non ha avuto problemi. Subito dopo, deve affrontare l’equazione
2y-x = 8x+2
che è ovviamente di difficoltà maggiore, e infatti la ragazza resta bloccata tre-quattro secondi, finché non posa la penna, pronta ad abbandonare il compito, e chissà, anche lo studio della matematica. E’ vero che in alto a sinistra c’è il suo libro di matematica aperto alla pagina “Inequalities and their graphs”, ma la ragazza non sembra ricordarsene. Invece a questo punto inquadra il suo foglio di carta con il suo IPhone, che mostra immediatamente il procedimento “esatto” da seguire per risolverla. Non solo: per ogni passaggio la ragazza può vedere degli approfondimenti sui concetti e i metodi usati (es. aggiunta di uno stesso termine ad entrambi i lati dell’equazione), grafici, video, insomma tutto quello che serve.
Una valutazione dell’app Socratic originale la potete leggere in questa recensione di maggio 2018.
Google sa davvero
tutto. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di una funzione
anti-educativa perché consente ai ragazzi di non fare i compiti e
farli fare a Google;
Qui tocchiamo il punto cruciale, a mio avviso. Oggi risolvi il problema di matematica, domani quello di fisica o chimica, dopodomani traduci questo passo di Seneca. Non sarà come con la calcolatrice, che ci ha fatto disimparare le quattro operazioni? Non sarà come con l’ascensore che ci ha fatto odiare le scale? Sulla validità dell’obiezione torneremo dopo. Ma la domanda è: perché Google è improvvisamente interessato all’educazione – a partire almeno dalle suite di applicazioni da ufficio etichettate “Education” ? Si tratta di un mercato enorme, è vero, ma Google non ha nessuna particolare competenza in piattaforme e software educativo. Perché ha deciso di comprare una società che produce una app che va usata durante lo studio, non prima o dopo?
Perché è esattamente qui che Google (seguito da tutti gli altri grossi player dell’IT) vuole andare. Google vuole spingere gli studenti a sostituire un supporto esterno generico e spesso obsoleto (come un libro), o costoso e raro (come un docente umano) con un supporto just-in-time, specifico, mirato e virtualmente onnisciente. Forse l’acquisto di Socratic serve a testare il terreno, a raccogliere informazioni e a preparare l’avvento di qualcosa di molto più potente: un tutor intelligente che utilizza il profilo dello studente/utente per accompagnarlo ovunque. Una specie di assistente educativo personale. Perfetto anche in tempi di pandemia per l’educazione familiare senza il rischio del contagio di classe. L’equivalente di Alexa, Cortana e Siri, ma mirato per un’età e per un’attività specifica di quell’età, lo studio. Bello, no? Beh, dipende dai punti di vista.
Prendete i navigatori auto, sia hardware che software. Oggi si percepisce che soprattutto gli utenti più giovani – ma non solo quelli – sono talmente abituati ad usarli da non essere quasi più capaci di leggere una cartina dall’alto, usando i punti cardinali, e grazie a quella costruirsi nella mente una rappresentazione di una regione dello spazio che comprende il luogo in cui sono e il luogo in cui vogliono andare. E non avendo questa visione generale, tendono ad accettare i suggerimenti della voce suadente di turno che fornisce il minimo di informazioni necessarie per agire momento per momento: “esci dalla rotatoria alla terza uscita”. E’ vero: i navigatori sono in grado di consigliare il miglior itinerario possibile tenendo conto della mappa, di alcune personalizzazioni (poche per la verità: il mezzo di trasporto e la disponibilità economica) e soprattutto dei dati di percorso provenienti dagli altri utenti. Ma i navigatori non spiegano perché è meglio fare una strada anziché un’altra, non puntano a educarci in modo che la prossima volta siamo in grado di fare da soli: i navigatori puntano a diventare indispensabili, a renderci dipendenti.
Immaginate una versione intelligente di un assistente per la scrittura. Una volta detto “voglio scrivere una lettera a Giovanni”, l’assistente comincia a suggerire delle parole, una alla volta: “Caro Giovanni, come stai?”. L’utente può accettarle oppure no, può sostituirle con altre (“Caro Giovanni, come te la passi?”), e l’assistente in questo caso capisce che il tono deve essere più colloquiale, si riposiziona nello spazio lessicale della lettera e suggerisce nuovi itinerari verso la conclusione: “Tanti cari saluti, tuo Stefano”. Questo modo di interagire non richiede all’utente di avere in anticipo un piano del testo, della lettera, ma solo una vaga idea della destinazione; assume come modalità di scrittura qualcosa che assomiglia al viaggio assistito dal navigatore, in cui si procede in soggettiva, un passo alla volta, seguendo i suggerimenti dell’assistente. Una forma molto moderna della scrittura automatica di Allan Kardec.
Questo è l’obiettivo finale di ogni servizio digitale, in ogni campo: stare vicino all’utente in ogni momento, aiutarlo, suggerirgli quello che deve fare in tempo reale, fino diventare indispensabile. Rendere l’utente minore, convincerlo che non può fare a meno di un motore di ricerca, di un sistema di comunicazione sociale, di un negozio online, e di un assistente educativo.
E’ curioso (o forse no) che questa strategia si applichi proprio nel campo dell’educazione, perché è tutto il contrario dell’educazione, è la negazione del concetto stesso di educazione, che dovrebbe essere un modo di far crescere le persone e renderle adulte, responsabili e capaci di scelta. Un apprendimento senza deutero-apprendimento, senza mai imparare a imparare, senza riuscire a diventare finalmente autonomi per andare avanti da soli.
Ma Google ha come motto “Don’t be evil”: come è possibile che voglia entrare nelle vite di tutti per il vantaggio solo di qualcuno? Non lo so, ma non credo che serva immaginare un delirio di onnipotenza. E’ sufficiente una strategia globale di dominio economico: il monopolio è molto conveniente e più sostenibile della concorrenza libera. Una volta che l’app Socratic diventa la compagna indispensabile dello studente, sarà difficile cambiarla. Una volta che tutti i tuoi file sono su Drive e la tua posta su Gmail, è difficile passare ad un altro fornitore, anche se dovesse fornire funzionalità superiori. Come minimo dovresti migrare tutti i tuoi contenuti da una piattaforma all’altra: chi ci ha provato sa che è un incubo.
Contemporaneamente, Google non nasconde affatto il suo modello di business. Usa le informazioni di uso dei privati (anonime) per migliorare i suoi servizi e venderli a chi ha veramente capacità di spesa (aziende e enti pubblici), ma non rinuncia alla vendita di spazi mirati di pubblicità. Perché non pensare allora ad una vendita di spazi pubblicitari all’interno di Lens/Socratic, più o meno trasparente, come già accade nel caso del motori di ricerca? Perché non pensare ad una profilazione accurata degli studenti che usano Lens/Socratic per migliorare i suggerimenti di acquisto?
Sono tutte motivazioni lecite, o almeno non illegali. Ma il problema non è tanto la motivazione di Google, quanto il rischio che il tutto ci sfugga di mano. Bernard Minier, nel suo thriller “M. Le bord de l’abime” si diverte a giocare con il motto di Google, e immagina un chatbot intelligente il cui motto sia “Be evil”. Siccome il chatbot malevolo usa dei motori di machine learning sofisticatissimi nutriti di conversazioni, non è facile accorgersi in anticipo dei suoi scopi. Intelligente, oltre un certo limite, significa opaco. Come facciamo a sapere che i suggerimenti di Lens/Socratic non sono deviati da un bias di qualche tipo?
ma usata bene la
nuova funzione di Google Lens può invece essere un aiuto vero a
capire il procedimento: non darà infatti semplicemente il risultato
del problema, ma mostrerà tutti i passaggi per arrivarci. Del resto
i compiti copiati, o svolti da un genitore, o dal compagno di classe
più bravo esistono da sempre: da oggi chi vuole imparare ha uno
strumento in più, chi vuole copiare anche. A noi la scelta.
Ho molti dubbi su questo modo di presentare gli aspetti didattici della questione. Intanto: fino a quando dovremo andare avanti con questa storia dello studente pigro e furbetto che “tanto ci sarà sempre”, degli strumenti neutri, dei fini separati dai mezzi? E’ una favola vecchia. I fini si nutrono dei mezzi disponibili, i mezzi si costruiscono per i fini. Nel caso dei mezzi digitali, che vanno a toccare direttamente concetti e i modi di collegarli, non si può accettare una visione che li separi dai fini
Luna (e gli autori di Socratic) sembrano pensare che per imparare a risolvere un problema basti vedere i passaggi per la sua soluzione. Chi è studioso ci fa attenzione e impara, chi è ciuccio invece salta subito alla soluzione, la copia, e il docente naturalmente non si accorge di nulla. A parte il fatto che qualcuno dovrà pure occuparsi di aiutare anche gli studenti ciucci, ma chi ha detto che imparare significa solo seguire i passaggi mostrati da qualcun altro, che sia un docente o un compagno o un libro? E’ una modalità, è uno stile, che può andar bene in certi momenti ma non in altri, per certi studenti, per certe materie. E’ un pezzettino della strategia complessiva, nella migliore delle ipotesi. Dove è finita la pedagogia attivista e costruttivista? Dov’è la personalizzazione dell’apprendimento? E’ una visione – tutto sommato comune – dell’insegnamento come esposizione dello studente alla verità, e deriva a sua volta dall’idea che ci sia una maniera giusta di fare le cose e che andare a scuola serva a imparare quella maniera. Ma qui siamo anni luce lontani dalla pedagogia degli ultimi cinquant’anni. Perché non dovrebbe essere più un mistero che come non c’è una sola traduzione possibile delle lettere a Lucilio, così non esiste una sola maniera di risolvere un’equazione. Magari il risultato sarà pure unico, ma la maniera di arrivarci no. La matematica non è solo logica, è anche cultura, e si insegna in modi diversi a seconda dell’epoca e del luogo. Chi ha provato a leggere un manuale di matematica in un’altra lingua si è già trovato di fronte a questo problema. Per non parlare ovviamente delle differenze in ambiti meno “duri”, come la storia, la geografia, la filosofia. Insomma, ci sono più modi di trovare una soluzione, e dipendono da aspetti culturali, personali (l’età e le competenze dello studente) e contestuali (è un esame? È un compito a casa? E’ il primo di dieci esercizi tutti uguali o l’ultimo?). Immaginare che un programma possa conoscere IL modo giusto di risolvere un problema per insegnarlo allo studente è soprattutto un errore culturale, direi filosofico. Ma è anche pericoloso, perché la maniera giusta, una volta cablata dentro un programma, rischia di restare rigidamente la stessa.
Non sono
ragionamenti miei, e non sono recenti. Questa cosiddetta novità
dell’insegnamento digitale risale agli anni ‘60, cioè – ogni
tanto fa bene ricordarlo – sessanta anni fa. Il progetto PLATO
(Programmed Logic for Automatic Teaching Operations) è un pezzo di
storia dimenticato. Partito all’università dell’Illinois, poi
preso in mano da un azienda produttrice di mainframe (CDC) con enormi
aspettative non solo economiche ma sociali (democratizzare la
cultura, portare alla formazione superiore anche i cittadini
americano meno benestanti), finì per essere abbandonato per i costi.
Non prima, però, di aver dato origine ad una miriade di progetti di
CAI (Computer Assisted Istruction) e di CAS (Computer Algebra System)
come MATHLAB, Reduce, Derive e Maxima.
Parallelamente, nasceva l’Intelligenza artificiale. Il primo programma in grado di dimostrare un teorema (Logic Theorist) è scritto da Newell, Simon e Shaw nel 1956; ma già nel 1964 Student, il software scritto da Daniel Bobrow per la sua tesi di PhD, era capace di capire e risolvere questo tipo di problemi: “If the number of customers Tom gets is twice the square of 20% of the number of advertisements he runs, and the number of advertisements is 45, then what is the number of customers Tom gets?” Bisogna poi aspettare gli anni ‘80 e la riduzione dei costi dei Personal Computer perché si affermino i primi Intelligent Tutoring System, in grado di mostrare i passi per la soluzione di un problema, di individuare gli errori dello studente e costruirne un profilo, e durante tutto il processo di interagire in linguaggio naturale. A partire dal 1988 si tengono regolarmente conferenze internazionali, come la International Conference on Intelligent Tutoring Systems, e nascono riviste scientifiche.
Stiamo quindi parlando di una “novità” vecchia di almeno trenta anni. E sono almeno venti anni che gli studiosi si affannano a sperimentare, valutare, confrontare, per concludere che il computer intelligente che sa risolvere i problemi non è una strada promettente. E’ limitata ad alcuni domini, è rigida, isola lo studente dal gruppo di pari, non tiene conto degli aspetti attivi dell’apprendimento. Molto meglio creare degli ambienti dove studenti e docenti possano interagire e costruire insieme pezzi di conoscenza, supportati dalla potenza digitale. Insomma la via aperta da PLATO non portava da nessuna parte.
L’annuncio ha
rimesso sotto i riflettori una app che è forse la cosa migliore che
Google può fare per noi: si chiama, appunto, Google Lens e consente
di identificare quasi qualunque cosa semplicemente inquadrandola con
il telefonino. Una pianta rara? Un animale misterioso? In pochi
istanti Google confronta la foto appena scattata con tutte quelle sul
web e propone la definizione migliore.
Migliore? Google Lens io ce l’ho da un po’, e in effetti all’inizio funzionava malino; l’ho riprovato ora inquadrando un oleandro in fiore, e tra le ipotesi che mi presenta c’è anche quella giusta, ma al terzo posto. Lens non ha modo di sapere quale sia la risposta corretta, può solo presentare un elenco di candidati, esattamente come fa il motore di ricerca più classico. Siamo noi che cliccando sul terzo elemento della lista (“Eccolo! È proprio questo”) forniamo un peso che verrà ricordato e usato per nutrire il motore di machine learning che sta dietro.
Funziona anche
con i piatti di tutte le cucine del mondo, e con i luoghi, per
esempio i monumenti, e con le scritte in moltissime lingue. E
funziona con i vestiti: vedete una camicetta che vi piace? In un
attimo ecco il sito dove comprarla al volo.
Bello, eh? Però il fatto che il sito dove comprarla al volo abbia pagato questa forma miratissima di pubblicità, e che quindi non sia necessariamente il migliore per noi, ma il migliore per il venditore e soprattutto per Google, dovrebbe essere tenuto presente.
Google Lens è il
nostro motore di ricerca preferito alla sua massima potenza: scatti
una foto e ti racconta una storia. In vacanza è un compagno di
viaggio inseparabile. E’ come viaggiare con una guida in tasca.
Io uso diversi motori di ricerca, con preferenza per quelli che almeno dichiarano di non tracciare l’utente, come DuckDuck Go. Non so se Luna viaggi usando la guida del Touring oppure la Guide du Routard. Io ho fatto caso agli effetti collaterali di quest’ultima: a forza di raccomandare la spiaggetta seminascosta a cui si accede con un sentiero segreto ha contribuito a distruggere tanti piccoli paradisi, dove adesso si tengono raduni oceanici di adepti del Routard. E per fortuna non tutti la usano. Questo paradosso era stato già descritto da Francesco Antinucci nel 2011 con il suo “L’algoritmo al potere. Vita quotidiana ai tempi di Google” (Laterza). E’ paradossale avere un servizio che consiglia un buon ristorante poco affollato, ma più funziona e viene usato, meno è attendibile.
Con la riapertura
delle scuole, lo sarà per gli studenti. Per diventarlo, Google ha
incorporato in Lens un software chiamato Socratic, che riconosce i
caratteri di un testo, compresa un’equazione, e applica
l’intelligenza artificiale per proporre la soluzione.
Per essere precisi: Google ha comprato la startup che produceva Socratic. Una startup nata nel 2013 da un gruppo di ragazzi che credono nel potere dell’educazione, che fanno partire una comunità di insegnanti che tramite un sito web propone contenuti di qualità e li rilascia con licenza Creative Commons. Nel 2015 la startup ottiene un finanziamento da parte di tre venture capitalist e Socratic si dedica solo allo sviluppo di un app. La quale app, a partire da gennaio 2017, fa due cose ben diverse: la prima è la continuazione del sito, ma stavolta con un motore di machine learning che è in grado di suggerire i contenuti più rilevanti presi da Internet; la seconda è una funzionalità del tutto nuova, per cui l’app è in grado di riconoscere il testo di un’equazione, di rappresentarsela internamente e di risolverla usando la libreria Math.js e infine di presentare i passi per la sua soluzione usando un altro software opensource, Mathsteps. Che però non ha moltissimo di intelligenza artificiale, la matematica di solito è trattabile senza bisogno di particolari intuizioni ed è per questo che è da lì che inizia, storicamente, ogni tentativo di creare dei supporti digitali per l’apprendimento.
A marzo 2018 Google compra Socratic, ma rende nota l’operazione solo un anno dopo. L’app continua a chiamarsi Socratic ma ha accesso ai motori di machine learning di Google; contemporaneamente, offre i suoi servizi anche alle altre app della costellazione Google, come Lens (per ora). Nel frattempo, uno dei fondatori, Shreyans Bhansali, resta come engineering manager, mentre l’altro, Chris Banegal, entra a far parte dei visionari che lavorano nell’Area 120, l’incubatore interno di Google.
Insomma
la solita storia: non c’è
posto per i piccoli. O muoiono, o vengono comprati. Sapendolo, è
chiaro che i ragazzi che dicono di voler fare una startup in realtà
vogliono solo fare abbastanza rumore da poter interessare una
multinazionale e poi passare
ad altro.
Il prossimo
passo, sarà la trasformazione di un testo scritto a mano, in bella
calligrafia, in un testo digitale.
Il riconoscimento della scrittura manuale è in realtà un tema piuttosto vecchio, e almeno dal 1990 esistono delle soluzioni commerciali. Probabilmente diventerà meno significativo man mano che la scrittura manuale verrà abbandonata. Ma la storia di reCAPTCHA, il servizio nato all’università Carnegie Mellon con lo scopo di migliorare le competenze dell OCR (Optical Character Recognition) dovrebbe essere di insegnamento. Siccome c’erano dei testi antichi su cui gli algoritmi di riconoscimento esitavano, i ricercatori della Carnegie Mellon pensarono di far ricorso all’esperienza umana. Così inserirono i caratteri su cui il software faceva cilecca nei sistemi di accesso ai servizi dell’università. Siccome gli umani in genere se la cavano piuttosto bene in questi compiti, le scelte degli studenti servivano ad accrescere le competenze dell’algoritmo di riconoscimento dei caratteri. Funzionò talmente
bene da valer la pena di crearci una startup; e la startup fu
puntualmente comprata da Google nel 2009.
Finito lo
stupore, restano due riflessioni. La prima riguarda i passi da
gigante che sta facendo l’intelligenza artificiale applicata alle
immagini: il tema del riconoscimento facciale automatico nelle
indagini di polizia, dei limiti e dei rischi di questa tecnologia,
diventa sempre più urgente. La seconda riguarda Google, che cos’è
davvero Google per noi utenti. Molti anni fa in un saggio sulla
rivoluzione digitale, Alessandro Baricco parlò per la prima volta di
una generazione che “respirava il mondo con le branchie di
Google”, che aveva insomma un altro modo di apprendere e
relazionarsi. Era una definizione molto efficace.
Il riconoscimento dei volti come strumento di identificazione massiccia al servizio del potere politico è effettivamente un tema caldo. Fa parte della discussione generale sulla tecnologia neutra a cui accennavamo prima. Luna però preferisce dirigersi verso la questione finale, quella del “senso di Google.” Piuttosto che citare “I Barbari” di Baricco, il quale è un attento orecchiatore di discorsi più che uno studioso in presa diretta sulla realtà, meglio dirigersi sul lavoro del collettivo Ippolita e sul loro “Luci e Ombre di Google. Futuro e passato dell’industria dei meta dati” (Feltrinelli, 2007). Ma è vero che tutti noi, giovani e meno giovani, facciamo molta fatica a fare a meno di Google (o di Facebook, di Microsoft, di Amazon) e anzi non vediamo proprio perché dovremmo privarcene. E’ vero che è difficile vedere qualcuno che usa un sistema operativo diverso da Windows o che acquista un libro sul sito della casa editrice invece che farlo su Amazon. E’ difficile vedere qualcuno che in un browser digita una intera URL quando basta scriverne una parte nella barra degli indirizzi (che in realtà è il campo di ricerca). Il punto non è solo che usiamo le branchie di Google per respirare, ma che stiamo dentro un acquario.
Oggi invece
Google Lens ci mostra per la prima volta “il mondo con gli occhi
di Google”: l’infinito catalogo di immagini che memorizza e che
mette a disposizione quando gli chiediamo che pianta è quella che
abbiamo davanti. Lens è il modo migliore per far capire a tutti che
Google ha creato una copia digitale del mondo e grazie a quella ha
tutte le risposte possibili.
Mi pare una semplificazione eccessiva, e peraltro dimentica il (fallito) progetto dei Google Glass, gli occhiali per la realtà aumentata. Che il progetto di Google sia sempre stato quello di creare una copia digitale del mondo, non c’è dubbio. Che il suo scopo iniziale fosse quello di fornire tutte le risposte alle domande, anche. Ma di tempo ne è passato, Google non è solo motore di ricerca, e il suo scopo non è solo quello di fornire risposte, ma quello di fornire una quantità impressionante di servizi, principalmente alle imprese e agli enti pubblici. Questi servizi sono sempre all’avanguardia e in generale di alta qualità, grazie alla raccolta di dati e soprattutto alla raccolta di giudizi, di azioni, di scelte umane. In sostanza, usando gratuitamente i servizi di Google noi forniamo il combustibile che brucia nelle caldaie di Google. Siamo noi che lo rendiamo sempre più potente e rafforziamo il suo monopolio. Google, del tutto legittimamente, ci ringrazia continuando a fornirci servizi sempre migliori. Dal suo punto di vista, è uno scambio win-win. Il problema è che c’è un effetto collaterale piuttosto importante: l’accumulo di troppe informazioni in mano ad un solo soggetto, con enormi rischi relativamente alla privacy degli utenti, e la possibilità che queste informazioni e i processi che le utilizzano diventino sempre più opachi e quindi fuori controllo.
Usare questi servizi gratuiti ci mette anche in una posizione sempre più asimmetrica, sempre più rischiosa rispetto al futuro. Per capire perché, provate a immaginere un giorno in cui Google decidesse di interrompere i servizi di posta. Fantascienza? Allora andate a leggere su Wikipedia la lista dei servizi gratuiti di Google iniziati e poi interrotti, con cancellazione dei contenuti relativi.
In realtà la
copia digitale del mondo, come tutte le copie digitali (si pensi alla
musica, nel passaggio dal vinile a Spotify) si perde per strada
qualcosa: lascia fuori qualche pezzettino di informazione.
Semplifica. Questo vuol dire che il mondo reale assomiglia moltissimo
alla sua copia digitale, ma è molto più complesso e ricco. Insomma,
non è tutto dentro Google Lens: faremmo bene a non dimenticarlo mai.
Su quest’ultimo passaggio posso dire di essere interamente d’accordo. La numerizzazione, la linearizzazione della realtà – che, ricordiamocelo, non è partita con Google, e neanche con Turing, ma con Galileo – è molto, molto efficace; ma ci costringe ad accettare dei limiti pratici. Non possiamo memorizzare e riprodurre tutte le sfumature di colore di un fiore, e nemmeno la forma di un sasso o il suono di una voce; ma possiamo avvicinarci abbastanza perché un occhio e un orecchio umano non siano in grado di accorgersene. La stessa cosa avviene nella categorizzazione delle persone, la profilazione: non possiamo avere una categoria per ogni persona, e quindi forziamo un po’ i valori mettendo più persone nella stessa categoria. Poi prendiamo delle decisioni sulla vita di quella persona in base alle categorie in cui è stata inserita, come se quella persona coincidesse col suo profilo, e questo è meno bello. Questo, alla fine, è il rischio che sta sotto la digitalizzazione dell’universo. Qualcuno usa una copia parziale e opaca del mondo per prendere decisioni sulla vita di qualcun altro.
Lezione obbligatoria di lettura dei giornali online, per chi ha questa brutta abitudine. Per chi non ce l’ha, c’è lo stesso qualcosa da imparare. Prendo come esempio un articolo di Repubblica.it, versione pubblica, apparso il 18 Maggio 2020. In fondo trovate tutti i riferimenti.
Titolo “Sondaggio: la didattica a distanza non piace alla gran parte degli studenti“ Sottotitolo: “Per la rilevazione Di.Te./Cittadinanzattiva/Skuola.net è insoddisfatto il 54% degli studenti, un terzo dichiara che è più faticoso concentrarsi durante le lezioni e il 15% circa dichiara che la possibilità di poter utilizzare computer e smartphone diventa una tentazione per fare altro durante le lezioni”
Fonti Si parla di un sondaggio: dove sta? Ci sono le fonti? No, bisogna andarsele a cercare fuori. E questo già è grave: come si fa a parlare di giornalismo online se uno scrive come se fosse sulla carta? Con un po’ di fortuna trovo la pagina Facebook e quindi il sito di Dipendenze tecnologiche, l’associazione che ha promosso il sondaggio. Dal sito si capisce chi c’è dietro l’associazione e la sua mission, e vi lascio il piacere di scoprirlo, visto che l’articolista non si è degnato di farlo. Curiosamente qui non c’è affatto un articolo dedicato al sondaggio, e nemmeno i risultati, ma solo un breve lancio che rimanda all’articolo vero che sta su Tgcom24, e che è la fonte ripresa pari pari da tutti gli altri siti che parlano dell’argomento, compreso quello del terzo partner, Skuola.net.
Peraltro non si capisce benissimo il ruolo del secondo partner citato, ovvero Cittadinanza attiva. Ma sul sito dell’associazione c’è un articolo esteso che parla del sondaggio (da cui si capisce che coinvolge anche le scuole, e non solo i ragazzi) e dove finalmente si trova un report con i dati. Sembrerebbe insomma che da qui si dovesse partire per correttezza di informazione. Se uno volesse fare informazione corretta.
Percorriamo l’articolo di Dipendenze, che sembra essere l’unica fonte del nostro articolista. Giuseppe Lavenia, psicologo e presidente di Dipendenze, dice: “I ragazzi non riescono più a immaginare un #futuro. Il 58% degli intervistati dice di mangiare di più e di concedersi qualche strappo alla regola, il 40% mangia a qualsiasi orario mentre il 45% non presta attenzione ciò che porta a tavola. L’isolamento forzato ha cambiato anche le loro abitudini del sonno, non solo quelle alimentari.“ Il tema, quindi, è un altro. Il problema è un altro. Le cause sono altre. Certo – visto chi è che scrive – “la tecnologia è si (sic) social ma non è per nulla socializzante. Fa sentire soli e non contiene le ansie“. Altrettanto certamente, “questi dati non fanno che confermare quanto intuivamo già: la tecnologia sta in qualche modo ‘salvando la vita’ ai ragazzi in quarantena“: qui chi parla è Daniele Grassucci, direttore di Skuola.net. Alla fine, lo psicologo propone… indovinate? di costituire dei “gruppi aula virtuale” con uno psicologo al posto del docente. Ma prima in effetti si era parlato anche di didattica a distanza, con il titoletto: “Tante luci e qualche ombra”. Testualmente: “[…] praticamente tutti la stanno facendo e per il 46% del campione Internet e i device sono, infatti, un buon mezzo per continuare a fare attività didattica.“ Come? Ma certo: se si fa 100-46 si ottiene 54. Che non avrei mai chiamato “la gran parte”, semmai “oltre la metà” o ancora “poco più della metà”. Retorica dei numeri.
Testo Torniamo adesso all’articolo di Repubblica. Inizia così: “C’è poco da fare, frequentare la scuola via web è una modalità che non ha conquistato gli studenti italiani: non piace al 54% di loro, la maggioranza.” Infatti c’è poco da fare. Va avanti per 364 parole, poco più di 2000 battute. Non è un articolo, non ci sono approfondimenti, fonti, collegamenti, confronti, nemmeno link ad articoli collegati sulla stessa testata. Non è un copia e incolla dell’originale, per carità: è molto peggio. Questa è la frase della fonte originale: “il 15,4% ammette che la possibilità di accendere pc e smartphone lo tenta a fare altro, distraendolo.” Questa è la riformulazione: “il 15% circa dichiara che la possibilità di poter (sic) utilizzare computer e smartphone diventa una tentazione per fare altro durante le lezioni.” E’ un esercizio utile di lettura quello che si può fare mettendo vicino testo originale e testo derivato. Alcuni cambi sono frutto di vecchia furbizia dumasiana (allungare il brodo), altri sembrano più subdoli. Questa è la tabella delle sostituzioni applicate: – ammette -> dichiara – accendere -> poter utilizzare – pc -> computer – tenta -> diventa una tentazione – distraendolo -> per fare altro durante le lezioni
Pubblicità E’ chiaro che una testata online, al netto delle dichiarazioni di amore per la nazione, la cultura e i valori fondamentali dell’umanità, campa di pubblicità. La misura di questo si vede dal rapporto (in pixel) tra la pubblicità e l’articolo. Devo dire che tra la pagina di Tgcom24 e quella di Repubblica, è la seconda ad essere non solo più piena di pubblicità, ma anche quella che la presenta in forma ambigua e poco riconoscibile. Al netto del messaggio promozionale principale – che è su un progetto benemerito di “oncologia online” – e un altro su un evento “meet the future” (entrambi collegati al contenuto dell’articolo in quanto ..?) in fondo all’articolo ci sono dei blocchetti foto/testo che si fa fatica a capire se siano articoli o pubblicità. Infatti sono mescolati, e c’è solo un piccoliiiissssima etichetta in grigio chiaro che dice “Contenuti sponsorizzati”. Quanti blocchetti? 80. Ottanta per un articolo di 2000 caratteri. 6 blocchetti su 80 sono in effetti dedicati al ministro Azzolina, ma si perdono tra macchine, siti di incontri e casinò online. Personalmente sono un furbetto che non usa un browser blindato ed efficiente, ma uno meno bello che però mi permette di scegliere; uso dei plugin che eliminano tutta la pubblicità dalla pagina; in più disattivo la maggior parte degli script che misurano e tracciano le mie visite. Faccio un danno all’economia mondiale, di sicuro, e in generale me ne dolgo, anche se vista la natura delle pubblicità me ne dolgo di meno. Faccio un danno in particolare ad una specifica testata, ma questo è voluto.
Perché bisogna resistere alla diffidenza verso il “positivo fino
a prova contraria”? Perché bisogna ricordarsi di Adamo e della sua
vera storia.
Per come ce l’hanno
tramandata, la storia dell’Eden e della Caduta mi ha sempre
convinto poco. Il minimo che si possa dire è che sia sessista; che
Dio nella sua infinita preveggenza si sia comportato in modo un po’
avventato seminando conoscenza a casaccio senza prevedere nemmeno una
password per l’accesso, che l’idea di lavoro come punizione non è
così educativa, eccetera.
Secondo me invece è andata diversamente.
Dio creò il tempo e
creò il primo uomo, Adamo.
Adamo non era
immortale: figuriamoci se dopo lo scacco di Lucifero Dio rifaceva lo
stesso errore.
Ad un certo punto
finiva il tempo, Adamo moriva e il suo corpo iniziava a decomporsi,
partendo dai capelli, le unghie la pelle. Restava solo un osso, anzi
il midollo di un osso, che però invece cominciava a moltiplicarsi, a
crescere, a generare nuovi tipi di cellule. Dopo un po’ ecco di
nuovo Adamo, identico in tutto e per tutto al primo. Un clone, in
pratica.
Dio vede tutto ciò,
per un certo numero di cicli di tempo che non possiamo determinare
perché, appunto, il tempo è circolare e tutto ricomincia sempre
uguale. Fatto sta che ad un certo punto si annoia. La noia è un
grande motore creativo. Allora Dio decide di inventare qualcosa di
meglio.
Si ispira alle
carte. Si capisce che, da solo al centro dell’Universo, Dio abbiamo
inventato le carte e i solitari. Uno in particolare, che si gioca
così: si prendono due mazzi di carte, di quelli che dopo si
chiameranno “francesi”. Ogni giocatore ha un mazzo. Uno dei due
giocatori (ma Dio gioca da tutti e due i lati, naturalmente) pesca a
casa una carta dal suo mazzo e la mette sul tavolo, diciamo un Cinque
di Fiori. L’altro giocatore (sempre Dio) per prendere deve giocare
una carta di Cuori (che è l’opposto di Fiori), ma in modo che la
somma delle due carte faccia quattordici: il Nove di Cuori. Se ce
l’ha, prende e poi tocca a lui giocare. Se non ce l’ha, passa.
Siccome tutti e due i giocatori hanno un mazzo intero, il solitario
finisce sempre bene. Alla fine, Dio contempla la serie delle coppie
di carte: Cinque di Fiori con il Nove di Cuori, Otto di Quadri con il
Sei di Picche, eccetera. Una serie sempre diversa, con tante
variazioni delicate che solo Dio è in grado di apprezzare
completamente. Il mazzo con cui gioca Dio è molto, molto grande.
Ecco: a Dio viene in
mente di fare la stessa cosa ma senza carte. Stavolta con due
giocatori diversi, che è l’innovazione principale. Inizialmente
pensava di chiamare i semi C Q F P (perché Come Quando Fuori Piove
si ricorda bene), poi invece decise per A C G T (A Cosa Giochi Tu?).
La storia della somma uguale a quattordici la lasciò cadere perché
era complicata da spiegare e Adamo non era fortissimo in aritmetica;
non per colpa sua, va detto. Contemporaneamente inventa anche un po’
di elementi instabili, radioattivi, che iniziano subito a decadere,
mentre le stelle lontane si raffreddano. Parte il tempo 2.0, lineare.
Insomma crea un
secondo Giocatore leggermente diverso da Adamo e lo chiama Eva (che
in origine era un gioco di parole, tipo Extra Vergine Adamo, ma
siccome era un po’ grossolano lo lascia cadere subito). Lancia il
test della Generazione Sessuata Beta 0.1 e la partita tra i due
giocatori funziona: il nuovo Adamo non è esattamente uguale al
primo. Si può procedere ad una fase 2 su scala più larga, fuori dal
confinamento dell’Eden.
Il sistema della
riproduzione sessuata era veramente una grande idea, riconosciamolo,
e Dio avrebbe voluto brevettarlo. Nell’impossibilità pratica di
farlo, decide almeno di far firmare ai partecipanti al test un Non
Disclosure Agreement. “E che gli diciamo ai nostri figli?”
domanda Eva. “Ma che ne so io, inventatevi qualcosa.”. Così Eva
comincia a raccontare del Baubau che se non obbedisci alla mamma ti
pizzica le dita dei piedi, e piano piano costruisce una storia
bislacca di divieti, di mele stregate, di angeli con spade
fiammeggianti eccetera. Aveva, in effetti, una certa dote naturale,
ma Dio le aveva anche regalato una delle prime copie della
“Morfologia della Fiaba” di Propp, che Eva sfrutta a fondo. I
bambini ascoltano rapiti, un po’ ci credono un po’ no. Ma insomma
è quella la storia che tramandano.
Dio all’inizio avrebbe
voluto cablare nella testa di Adamo ed Eva un imperativo categorico
del tipo “Crescete e moltiplicatevi” a livello di specie, ma poi
scelse una versione che funzionava meglio, e la piazzò nell’amigdala
di Adamo: “Moltiplica i tuoi geni e fa’ in modo che quelli degli
altri si perdano per strada”. Insomma la riproduzione sessuata
aveva una controindicazione: portava con sé la selezione del partner
e la concorrenza. Si vide subito, con il pasticciaccio brutto di
Caino e Abele, che così si rischiava di estinguere la specie in
quattro e quattr’otto. Così Dio corse ai ripari e inventò il
Patto Speciale, cioè quella forma di disturbo della memoria che
faceva sì che i discendenti di Adamo ed Eva provassero un fastidioso
formicolio ogni volta che erano sul punto di eliminare un essere
della loro Specie perché non potevano essere completamente sicuri
che non fosse un parente lontano. E, reciprocamente, quando vedevano
un altro essere umano sul punto di affogare, cercavano di salvarlo
anche a rischio della propria vita, perché non potevano essere
proprio certi che non fosse un cugino lontano per parte di madre.
E’ questo Patto che rischia di venire meno con la paura del contagio. Ricordatevi sempre di Adamo ed Eva.
Trascrivo alcune riflessioni sul tema della valutazione universitaria. Sono iniziate insieme ad Andrea, al telefono, una mattina di primavera, e poi hanno preso vita propria dentro la mia testa. La responsabilità delle tesi esposte è mia.
1. Come si fa a sapere che la valutazione della prestazione di uno studente in un test in aula non è falsata?
Per assicurarsi che lo studente che fa l’esame sia veramente quello che dice di essere si possono utilizzare diverse strategie. La principale si basa sulla difficoltà di produrre documenti falsi e sulla capacità della mente umana (suppongo che appartenga a noi mammiferi) di riconoscere i visi. Si chiede un documento di identità, e si confronta la foto con lo studente in carne ed ossa.
Tutti sono a conoscenza di storielle, vere o false, su gemelli che fanno due volte lo stesso esame, ma questo è quello che abbiamo al momento.
Per assicurarsi che
lo studente non copi, o non si faccia suggerire, o non consulti altre
fonti oltre a quelle ammesse, di solito si crea un ambiente fisico
controllato: uno studente per banco, un assistente che passa fra i
banchi, niente foglietti nelle maniche e cellulare lasciato
all’ingresso.
Per ognuna di queste strategie si può immaginare una contro-tecnica messa in atto dallo studente: appunti scritti sulla pelle, secondo cellulare, etc.
Insomma, nemmeno qui possiamo essere assolutamente sicuri che tutto funzioni come previsto, ma il rischio dell’imbroglio è statisticamente accettabile.
2. Come si fa a sapere che la valutazione della prestazione di uno studente in un test a distanza non è falsata?
Il problema se lo sono posto in tanti, molto prima della chiusura forzata delle università del marzo 2020. Perché la formazione a distanza esiste dalla seconda metà dell’ottocento. Le Università a distanza esistono (in Italia ce ne sono 11), come esistono Università che erogano una parte dei loro corsi a distanza. Il vantaggio di queste Università è quello di disaccoppiare studente e docente, nello spazio e a volte nel tempo. Permettono a studenti che abitano a decine di migliaia di chilometri dalla sede dell’Università di frequentare e di laurearsi, o comunque di conseguire un titolo che ha valore legale. Come hanno risolto il problema della valutazione certificativa? In molti modi diversi.
Prima di tutto, storicamente, con una valutazione finale in presenza. A volte anche in luoghi diversi sparsi sul territorio. Accordi con altre agenzie formative o semplicemente con soggetti privati che offrono il servizio di verifica dell’identità degli studenti nell’aula dove si tiene l’esame. Così non si elimina il rischio di falsificazione, ma si riporta ad un rischio conosciuto e accettabile.
Quando questo non è possibile, se il numero di candidati per l’esame è relativamente piccolo, si può simulare un esame orale tramite videoconferenza. Quindi si chiede al candidato di esibire un documento di identità e il docente, dall’altra parte della connessione, confronta la foto con l’immagine dello studente. Ovviamente un documento di identità esibito attraverso una webcam a bassa risoluzione è meno facile da identificare come originale, ma pazienza.
Ma si possono usare o immaginare di usare, una serie di tecnologie più sofisticare. Per esempio:
– il riconoscimento
facciale intelligente (quello in uso in alcuni aeroporti, e in Cina)
– il riconoscimento
tramite impronta digitale
– il riconoscimento
tramite esame dell’iride
– un token unico inviato via email immediatamente prima dell’esame e valido per un tempo limitato
– un dongle usb (un oggetto fisico) che contiene un certificato e che è spedito allo studente prima dell’esame
– il riconoscimento grafometrico della scrittura manuale
– il confronto dei
tempi e degli errori della scrittura con un modello dell’utente
costruito in precedenza
– …
Nel caso di esami scritti, per assicurarsi che il candidato non copi o non si faccia dare suggerimenti sono state usate, o si potrebbero usare, altre tecnologie ancora:
– la doppia
telecamera (una che inquadra lo studente e una il monitor) e un
software di analisi delle immagini
– dei computer
appositamente preparati e “blindati”
– un software che gira sul PC del candidato e che impedisce al computer, per il tempo dell’esame, di fare altro
– un proxy che
impedisce tutti i collegamenti tranne quelli elencati in una white
list
– una ricerca della
somiglianza della composizione del candidato con testi disponibili su
web
– …
Anche in questo
caso, ci sono delle contro-strategie possibili, soprattutto se il
candidato è uno studente di informatica.
3. Ora spostiamoci in avanti. Grazie ad una coincidenza di spiriti buoni, il Paese X decide finalmente di finanziare la sanità e la formazione.
Ottimo. Recrudescenza del contagio a parte, anche nel futuro più ottimistico qualcuno potrebbe dire “Perché smettere con la didattica a distanza visto che ha funzionato così bene? In fondo si risparmia tutti, gli studenti fuori sede non devono spostarsi e l’Università risparmia sulle strutture; inoltre potrebbe assumere docenti da ogni parte del mondo”.
Obiezione: “Va bene la formazione, ma la valutazione? Come la facciamo, la valutazione a distanza?”
Risposta: “Beh, ma
visto che le tecnologie di identificazione dello studente al momento
dell’esame hanno funzionato così bene, perché non usarle ancora?
O perché non investire per studiarne di ancora più efficaci?”
Allora i finanziamenti verrebbero utilizzati per aumentare il controllo, e messi a bilancio come investimenti per risparmiare.
Questo esito a me sembra davvero esiziale. Un investimento in questa direzione – anche a prescindere dagli impatti sullo stipendio dei docenti, sul loro contratto e sulle procedure di selezione – sarebbe un’enorme occasione mancata. Perché non migliorerebbe la formazione come potrebbe e non migliorerebbe la valutazione come potrebbe. Si limiterebbe a rendere efficace un pezzettino del processo lasciando invariato tutto il resto. Invece si potrebbe chiedere o pretendere che i finanziamenti (immaginari, per ora) vadano verso una ricerca sperimentale sui modelli di valutazione online. Questo potrebbe avere un effetto generale molto più potente.
4. Cosa valutiamo, e perché?
Non sempre i docenti
universitari hanno seguito un corso di docimologia, o di teoria della
valutazione, o semplicemente hanno potuto studiarla. Non tutti i
docenti hanno avuto modo di riflettere su cosa valutano. Perciò si
appoggiano sulla propria esperienza personale, sulle prassi
consolidate, sulle intuizioni.
Potrebbe invece
essere il momento per mettere in dubbio quello che sembra ovvio. Ad
esempio:
L’esame finale è l’unico modo possibile di valutare il percorso di uno studente? Non è vero, si può valutare durante tutto il corso la crescita delle competenze dello studente. E l’esame finale, se necessario, non è altro che la conferma di quel percorso.
L’esame certifica le competenze possedute da X ? No: l’esame confronta le competenze di X con un modello. Se l’esame è fatto bene – ci sono delle misure precise di cosa significa “fatto bene”, di questo si occupa la docimologia, e non sono cose che si improvvisano – si può arrivare a dire che X si comporta come ci si aspetta da uno studente che abbia quelle competenze. L’esame non entra nella mente dello studente e non è una palla di vetro.
Chi non supera un esame non ha quelle competenze? Non è sempre vero neanche questo: esiste un effetto “stress da esame” che fa sì che lo studente in certi casi renda meno di quanto potrebbe. Certi tipi di esame sono più stressanti di altri; certe culture favoriscono delle “soft skills” che facilitano il superamento di un esame orale, mettiamo, invece che scritto.
Chi supera un esame in futuro sarà in grado di applicare quelle competenze nei casi reali? E’ possibile, in fondo a questo servono gli esami, se sono fatti bene. Ma non è sicuro. Vogliamo minimizzare i danni che potrebbero derivare dal mandare in giro dei chirurghi con licenza di uccidere, ma non possiamo davvero azzerarli. Anche perché le conoscenze si dimenticano e le competenze non applicate si arrugginiscono.
Si può pensare ad
un corso con una valutazione continua, che abbassa di peso l’esame
finale? Credo di sì, visto che si fa in tanti altri contesti. In
fondo la capacità predittiva di un singolo esame è più bassa di
quella di una serie di prove sparse lungo un percorso, perché queste
permettono di disegnare una curva che si può prolungare.
Si può immaginare una valutazione in cui lo studente possa utilizzare tutti gli strumenti messi a disposizione da Internet? Sì, perché quella è la situazione in cui probabilmente si troverà ad operare nella vita. Si possono immaginare compiti di valutazione autentica, cioè “task sottospecificati” (grazie Andrea), in cui si va a vedere come se la cava lo studente.
Copia? E’ una strategia, ma tutti sanno che non è la migliore quando il compito è nuovo.
Inventa da zero? E’ una strategia rischiosa, perché spesso la possibilità di verificare gli effetti collaterali è ridotta.
Adatta soluzioni verificate? Bene, se le sceglie con criterio è probabilmente la soluzione vincente.
Si confronta con gli altri? È esattamente così che funziona il mondo del lavoro. Chi lavora da solo non ce la fa. Basta uscire dalle aule e andare a vedere cosa succede fuori, da tempo, da prima di Stackoverflow e di Github.
5. L’utilizzo dei dati di navigazione è la grande lezione (mancata) dell’e-learning.
Ancora oggi ci si limita a tenere traccia a fini certificativi del tempo trascorso in un ambiente chiuso (una piattaforma di e-learning), o delle visite ai nodi di un corso, per soddisfare dei criteri quantitativi. Questo anche quando esistono modelli e protocolli come le xAPI (eXtended API, una volta tin-can API) che permetterebbero di tenere traccia dei percorsi di uno studente anche fuori da una piattaforma.
Mentre diventa sempre più chiara l’importanza in termini economici delle attività di profilazione degli utenti tramite l’analisi non solo del loro percorso, ma anche dei loro prodotti testuali (ricerche, post, messaggi), è arrivato il momento di iniziare a praticare un utilizzo dei dati dello studente, con il suo consenso, non per i fini economici di un soggetto estraneo, ma proprio per fornire un migliore servizio di valutazione allo studente stesso. Come vado dicendo da quindici anni almeno, e come alcune ricerche sull’applicazione di tecniche di machine learning in campo educativo potrebbero confermare.
Se si riesce a costruire un modello che partendo dal suo stato iniziale e tenendo conto di come ha interagito con gli altri studenti e con il docente durante il corso, di come ha svolto le esercitazioni, di come ha corretto quelle degli altri (peer assessment) riesca a proiettare la curva fino a predire il tipo di risposte attese, allora si potrebbe immaginare una valutazione continua che ha un potere predittivo maggiore del singolo esame finale. In cui l’importanza del controllo dell’identità dello studente è molto minore. In fondo la profilazione degli utenti tramite l’analisi dei dati di navigazione si basa su questo principio: il nostro modo di dire e fare ci individua meglio della nostra carta di identità.
Questo non riguarda solo la formazione a distanza, e infatti c’è chi ha cominciato a raccogliere dati anche per la formazione tradizionale. Ci vogliono tanti dati, bisogna coinvolgere tante discipline e tante professionalità. Bisogna fare molta, molta attenzione alla privacy; bisogna evitare che questi dati possano servire alle università per decidere quali studenti accettare e quali rifiutare, o peggio alle aziende a decidere quali studenti vale la pena di assumere e quali no (è la tentazione più ovvia per recuperare fondi). Bisogna assicurasi che i software che elaborano i modelli siano aperti, e che i dati siano a disposizione del diretto interessato. Insomma non è facile, ma si può fare. Ci si può provare.
6. Ma lo studente potrà sempre cercare di imbrogliare.
Esatto. Uno studente
che non abbia come fine l’apprendimento ma il superamento
dell’esame può investire una quantità di energie enorme verso
l’obiettivo sbagliato. Bisogna spiegarglielo, e bene. Magari
portando in aula un rappresentante delle aziende che ricerca laureati
in quella disciplina, che gli dica la verità: che non è il voto di
laurea, e nemmeno la media che andranno a guardare al momento del
colloquio. Al colloqui, vorranno verificare che il candidato sappia
fare qualcosa. Non conterà niente quanto è stato capace di
imbrogliare prima. A meno che l’azienda non lavori nel settore
truffa&imbroglio.
E’ incredibile quanto ci si possa illudere sulla propria capacità di imbrogliare nella vita. Ad un certo punto, però, se le cose le sai fare, le fai, altrimenti stai a guardare. Magari come dice Hollander, il venditore di bacchette magiche di Harry Potter, sai fare cose malvagie. Ma le devi saper fare, se vuoi diventare Lord Voldemort, non basta il diploma da fattucchiere ordinario.
Questa banalità contrasta con tanta parte della nostra cultura. Contrasta con i corsi in cui la frequenza è gratis ma l’attestato si paga. Contrasta con l’idea stessa di università a distanza che è vista solo come una scorciatoia e non come un’opportunità per chi lavora o abita lontano dai centri abitati. Contrasta con il luogo comune che vuole che la scuola sia un obbligo da cui bisogna sfilarsi al più presto con una menzione onorevole.
7. Il punto fondamentale è l’acquisizione di una cultura della valutazione. Da parte di tutti: docenti, studenti, familiari, decisori pubblici e privati.
Valutazione come
servizio continuo, come parte organica della formazione. Valutazione
non solo degli outcomes ma anche dei processi. Valutazione per il
miglioramento, non per la selezione.
Tempo fa, a proposito degli ipertesti, scrivevo che il digitale è un vampiro, che succhia la realtà. Avrei dovuto scrivere che è più simile agli ultracorpi del film omonimo del 1955 (che penso tutti conoscano, in una delle sue versioni). Il titolo originale del film era “The body snatchers”, i ladri di corpi.
Secondo Bolter e Grusin (che all’epoca non conoscevo), il digitale
“remediates” l’analogico, secondo una dialettica propria
del processo mediatico, di tutti i media: la fotografia rimedia la
pittura, etc. Mescola insieme media diversi (hypermediacy) e così
facendo tenta di diventare trasparente (immediacy) come medium.
A me sembra che il digitale faccia una cosa un po’ diversa e specifica. Imita e sostituisce. Copia con il preciso scopo di prendere il posto dell’originale, come gli ultracorpi appunto.
La maggior parte degli artefatti digitali nasce come imitazioni di
artefatti analogici. A partire da immagini e suoni digitali, che sono
campionamenti discreti e che vengono rimesse insieme con un software
per dare l’illusione della realtà. Lo smartphone imita il telefono,
non solo nel senso che ne assume tutte le funzioni, ma nel senso che
digitalizza tutte le sue parti (la rubrica, la selezione, la codifica
della voce, l’invio e la ricezione) e le trasforma in software e
dati.
Una volta fatta questa operazione, l’intero oggetto telefono si
può rappresentare dentro un altro sistema digitale, cioè un
computer. Per esempio ci sono simulatori di videogiochi, ma anche
simulatori dei computer con cui si giocava a quei videgiochi.
La pagina del quaderno e quella del libro, compreso l’inchiostro,
e poi l’indice e la copertina, sono stati digitalizzati. A questo
punto, l’hardware che li contiene e permette l’interazione da parte
di organismi fisici come noi diventa quasi indifferente (immediacy).
Di qui, tra l’altro, l’ambiguità e confusione tra ebook (contenuto),
ebook reader (software) ed ebook reader (hardware contenente).
Va anche detto che di solito si pensa solo ai dati che vengono convertiti e si mette meno l’accento sul software, che invece è essenziale per imitare i comportamenti che ci sono consueti con quei dati. Se i dati possono essere semplicemente campionati e riprodotti, le funzioni invece vanno analizzate e ricreate (poggiare la punta della penna sul foglio, premere, trascinare, staccare; e poi cancellare, sottolineare, etc.).
Non affronto questo tema per denunciare i rischi della
virtualizzazione e per decantare la bontà del buon vecchio oggetto
fisico o della sua rappresentazione analogica. Voglio solo
sottolineare il fatto che questa capacità di replicare completamente
per sostituire è tipica del digitale ed è una rottura rispetto a
tutta la storia dei media precedenti.
Qual è il vantaggio di questo processo? Sullo stesso hardware
posso simulare infiniti oggetti diversi. Quindi mi costa di meno. Con
lo stesso linguaggio di programmazione posso creare infinite
simulazioni. Quindi ottimizzo le competenze. Lo stesso stile di
interazione si può applicare a infiniti ambiti diversi. Quindi ne
facilito l’uso.
Queste, in breve, le ragioni economiche e sociali che hanno spinto
il digitale fino alla situazione di dominio che oggi gli
riconosciamo. Ma più interessante è, a mio parere, quello che
succede quando ci si allontana dall’imitazione e si provano a creare
modi di interazione del tutto nuovi. Interessante soprattutto per i
fini educativi.
___
L’automobile è stata concepita, e poi presentata e quindi venduta, come carrozza senza cavalli. Si è portata dietro questo schema antico, per evolversi e allontanarsene un po’ alla volta (ma ancora parliamo di potenza in termini di cavalli). Non può staccarsi troppo perché trova dei limiti: il guidatore e il passeggero devono essere seduti comodamente, protetti dalle intemperie, ma contemporaneamente devono poter vedere la strada, etc. Fa qualcosa di diverso del carro con i cavalli: corre molto di più, è più piccola, ha maggiore autonomia, può rimanere ferma per mesi e poi ripartire, se non è in funzione non gli si deve dare da mangiare. Ma in fondo niente di radicalmente diverso dal carro.
Un po’ come la videoconferenza usata per le lezioni a distanza. Oggi è usata come una cattedra molto, molto lontana. Ancora non riusciamo a immaginarne un uso in quanto tale, non come simulazione di qualche altra cosa.
Spostiamoci un attimo nel mondo del coding. Guardando agli ambienti di programmazione visuale (sì, parlo di Scratch; ma pure di Snap! e di tanti altri) viene inevitabilmente in mente il LEGO come metafora. Ora immaginiamo una simulazione digitale proprio del LEGO originale (esiste davvero, in una versione più semplice di come la descrivo nel seguito, http://ldd.lego.com/en-us/). I mattoncini sono parallelepipedi colorati su uno schermo. Si possono girare in tutte le direzioni, spostare, congiungere.
Quali sarebbero le differenze con il LEGO del mondo reale?
il numero dei mattoncini è
teoricamente infinito (non lo è in pratica perché la il software,
e la macchina su cui gira, hanno dei limiti fisici)
è facile assegnare ai mattoncini
digitali altre proprietà o comportamenti. Potrebbero diventare
trasparenti, crescere; ma anche suonare, muoversi da soli, staccarsi
e attaccarsi dopo un certo tempo.
sulla base di queste proprietà si
possono immaginare regole, giochi, interazioni che con i mattoncini
di plastica non sarebbero possibili.
queste nuove regole e interazioni
possono essere immaginati da chi ha progettato il software, ma anche
da chi lo usa, ammesso che il software lo permetta
Insomma questa immaginaria versione digitale del LEGO potrebbe essere riprogrammata, anche dai bambini. Questa è una differenza importante. Non è solo questione di portabilità, leggerezza, facilità, ma di legge costitutiva, di regole che sono in mano all’utente e non solo al produttore.
Qui il digitale mostra la sua potenzialità.
Ecco, questa è la strada. Staccarsi dai limiti che erano appiccicati all’immagine precedente, il LEGO, la cattedra,la carrozza con i cavalli, e creare qualcosa di davvero nuovo.
(Non c’è bisogno di dire questo testo si alza come uno zombie dalle profondità di un hard disk, risvegliato dalla necessità di stare vicini agli studenti nell’emergenza della didattica a distanza di questi giorni. E’ stato scritto per tutt’altro scopo, nel contesto di un master online del 2007, come una lettera rivolta a studenti adulti, e non a bambini o ragazzi. Bisogna fare le dovute distinzioni, ma forse il ragionamento generale sul fading merita un minuto di riflessione)
A volte si ha l’impressione che si intenda la figura del tutor online come un ruolo esistente, stabilito, fissato una volta per tutte; mentre dovrebbe essere chiaro che ciò che intendiamo oggi per tutor online dipende dalla situazione storica in cui ci troviamo: una situazione in cui forse la maggior parte dei problemi legati all’e-learning sono rappresentati dalla mancanza di esperienza personale di contesti di apprendimento online. E’ per questo che – attualmente – le competenze strumentali e le attività di supporto tecnico e metodologico da parte del tutor online sono così importanti; ma è per questo che lo saranno sempre meno, fino a scomparire probabilmente del tutto a regime, in un contesto in cui chi si iscrive ad un corso online è già stato studente, tutor o autore online infinite altre volte.
In quanto segue proverò a riassumere la mia personale posizione proprio su questo punto, che ritengo fondamentale perché permette di rispondere ad un domanda: come deve gestire l’occupazione dello spazio e del tempo (digitale) un tutor di un gruppo di apprendimento online? Quanto deve essere presente, quanto deve sollecitare, quanto deve essere pronto/a nel rispondere alle domande?
Per far questo,
proverò ad usare termini e concetti presi in prestito da un ambito
completamente estraneo – almeno ad un primo sguardo – alla pedagogia
e all’andragogia.
Per essere più
precisi, farò riferimento ad un momento storico importante per
l’occidente, e cioè ai primi anni di vita del Cristianesimo, quando
i primi cristiani si interrogavano intorno al problema dell’annuncio
della Buona Novella al di fuori del mondo israelita.
Anche allora si era posto il problema della costruzione di un nuovo ruolo, oggi diremmo di una nuova professione, che andava a sostituire quella del profeta, ma che se ne differenziava per molti motivi: la posizione nel Tempo (il profeta annuncia un evento ancora da venire, l’apostolo annuncia l’evento già avvenuto), l’utilizzo della parola e in generale dei segni (il linguaggio profetico, che procede per immagini, da un lato, e il linguaggio della testimonianza, che racconta fatti, dall’altro), il target di riferimento (prima un popolo, ora il mondo intero), il suo ruolo rispetto alla comunità (esterno l’uno, interno l’altro).
Sono proprio i concetti di assenza, simbolo, comunità che mi sembrano utili per il nostro tema e che intendo riprendere (senza naturalmente nessuna implicazione nella direzione opposta).
L’idea fondamentale su cui si basa queso testo è che la definizione del ruolo del tutor online debba prendere in considerazione il momento storico particolare in cui ci troviamo, che è un momento di transizione tra la formazione in presenza e qualcosa di nuovo che non abbiamo ancora ben capito. In questo senso, mi paiono prematuri i tentativi di sistematizzazione. Non è possibile – ancora – fissare in maniera definitiva il ruolo del tutor online, perché la sua sostanza attuale è legata fortemente proprio a questa transitorietà. E’ possibile però indicare una strategia generale, fatta di azioni diverse in tempi diversi, che il tutor può adottare.
Di questa strategia, provo a indicare brevemente nel seguito i tre passaggi principali.
1.
Il primo annuncio: l’assenza
1.1 Si potrebbe dire, con un’espressione forte, che oggi (e sottolineo oggi ) il primo compito di un tutor online è quello di aiutare i corsisti a superare il lutto della morte del docente in presenza.
Mi spiego: chi ha partecipato tutta la vita ad attività di formazione tradizionale, in cui un docente gestisce la classe e stimola l’apprendimento dei corsisti, nei corsi a distanza trova insopportabile l’assenzafisica del docente.
Questa situazione è
paragonabile a quella di un gruppo di terapia senza terapeuta, di
un’orchestra senza direttore, di un cast senza regista. Sembra
mancare il polo centrale, la ragione stessa per la quale il gruppo è
gruppo (o meglio comunità) e non semplicemente un assembramento di
persone.
Naturalmente la
maniera in cui il corso online è organizzato può rendere questa
assenza più o meno percepibile. Contenuti scritti in seconda persona
lasciano il corsista con l’illusione che il docente, in qualche modo,
sia presente almeno nei suoi scritti. Contenuti neutri, oggettivi,
scritti in terza persona, lasciano più soli i corsisti. Più in
generale, un’organizzazione forte del corso (forum molteplici,
un’agenda ben riempita, attività formalizzate e riconosciute,
suddivisioni e assegnazione di ruoli) crea una specie di
“ubriacatura” del corsista che ha l’effetto di fargli
dimenticare il significato del termine e-learning, che è
“apprendimento digitale” e non “insegnamento
digitale”, cioè implica già nella sua enunciazione un ruolo
attivo dello studente. Un corso ad organizzazione debole (un semplice
repository di documenti, con alcuni strumenti messi a disposizione
dei corsisti) è probabilmente molto meno efficace, almeno in
contesti di principianti, ma almeno ha il vantaggio di confrontare
subito il corsista con il problema di cui discutiamo qui: l’assenza
del docente.
1.2 Il primo compito del tutor online è dunque proprio questo: annunciare questa “morte” del docente, cioè la necessaria assenza del (ruolo del) docente nei corsi online. Un’assenza che mano a mano che viene percepita lascia uno spazio vuoto; ma che una volta dichiarata esplicitamente dal tutor genera non soltanto disagio, ma una vera e propria sensazione ditradimento, in particolare nel corsista che di professione fa il formatore: “Come”, si dice il corsista, “questo sarebbe un corso? ma senza docente, che corso è? Manca uno dei poli fondamentali dell’insegnamento. Manca il rapporto fondante studente/docente, manca la sorgente della conoscenza, manca il canale stesso della trasmissione del sapere”. E così via.
La prima
raccomandazione da fare al tutor è questa: costi quello che costi,
siate fermi nel sostenere che in un corso online non c’è un
docente dall’altra parte. Senza questa presa di coscienza
inequivocabile, non ha inizio il processo di apprendimento digitale
che in quanto tutor siete chiamati a gestire e facilitare.
1.3 Contemporaneamente, il tutor si presenta inevitabilmente proprio come colui/colei che può facilitare questo passaggio all’età nuova in cui l’apprendente diventa protagonista dell’apprendimento. Nel momento in cui il corsista comprende appieno la forza del messaggio di cui il tutor è portatore, il ruolo del tutor stesso viene a cambiare, e la sua figura viene a crescere di importanza ai suoi occhi. Nel momento in cui il corsista capisce e accetta che l’assenza del docente in presenza non è momentanea, ma definitiva, si lega ancora di più al tutor, sui cui proietta l’immagine del docente.
Questo è il ruolo
paradossale, e insieme il rischio principale, del tutor: è la
tentazione del profeta di divenire oggetto della profezia, la
tentazione del messaggero di divenire messaggio. Il tutor rischia
cioè di presentarsi come sostituto sensibile – anche se ancora
virtuale – del docente, proprio nel momento in cui formalmente ne
dichiara l’assenza. Rischia di assumerne involontariamente il ruolo:
all’inizio semplicemente provando a soddisfare le richieste di aiuto
e supporto da parte del corsista, per poi lasciarsi trascinare in una
dinamica docente/studente che online non è più possibile. Come
evitare che questa disponibilità in buona fede prenda la deriva del
protagonismo? E’ il secondo compito del tutor online, il secondo
momento della sua “strategia”.
2.
Il secondo annuncio: i simboli
2.1 Il corsista è
davvero solo, ma non è “povero”. Non c’è il docente, è
vero, ma ci sono tutti i segni che il docente (diventato “autore”,
progettista, instructional designer, etc.) ha lasciato: i materiali
didattici, i riferimenti bibliografici e i link, l’organizzazione del
tempo e dello spazio. Questi segni hanno duplice valore: sono
strumenti su cui il corsista costruisce il proprio percorso di
apprendimento, ma sono anche strumenti con cui (in cui) il gruppo si
riconosce, che consentono di collaborare, di costruire una comunità
da un semplice gruppo di persone che condividono un accesso ad una
piattaforma. Il tutor dovà quindi presentare al gruppo – in funzione
allo stesso tempo consolatoria e oggettivante – i segni lasciati dal
docente. E’ il secondo annuncio.
2.2 Su questi stessi
segni il tutor deve poggiarsi per far partire il processo di
autogenerazione della comunità. Sono segni che sono importanti non
per se stessi, ma per il ruolo che il tutor gli assegna. La maniera
in cui il tutor usa gli strumenti di comunicazione e collaborazione
messi a disposizione nella piattaforma è capitale: perché funge
immediatamente da modello d’uso di questi strumenti, da implicita
educazione all’uso (indipendentemente da un’eventuale formazione
esplicita al loro uso). Un’educazione che funziona in tanto in quanto
i corsisti percepiscono e riconoscono un valore in questi strumenti.
Per questo motivo, non è tanto il numero e il tipo di
funzioni che la piattaforma offre che fa la differenza, ma la
percezione che i corsisti hanno del valore di queste funzioni;
percezione che non dipende dalla lettura di manuali e tutorial, ma
dalla maniera in cui il tutor mostra di volere e sapere utilizzare
questi strumenti.
3.
Il terzo annuncio: la comunità
3.1 Il corsista a
questo punto è ancora solo, ma scopre che grazie a questi segni la
sua solitudine è destinata a durare poco. L’incontro con gli altri
corsisti nello spazio virtuale della piattaforma, attraverso la
mediazione dei segni lasciati dal docente e portati in evidenza dal
tutor, non è casuale ma necessario. Quasi insieme all’annuncio
dell’assenza, o meglio subito dopo, il tutor deve comunicare con
altrettanta forza un nuovo messaggio positivo: che la responsabilità
dell’apprendimento ricade ora sulla comunità, e non più sul singolo
corsista.
3.2 Detto in termini
generali, l’e-learning non ha un soggetto singolare, ma inerentemente
plurale. Semplicemente, non funziona come l’autoapprendimento,
per intenderci quello dei manuali o dei corsi di lingua su CDROM. E
d’altra parte, lo scopo principale di una piattaforma in Internet è
proprio quello di creare uno spazio digitale pubblico, che permette a
persone diverse di condividere un percorso di apprendimento. Se
l’altro – inteso come parte di un gruppo – non fosse destinato ad
avere un ruolo fondamentale nell’apprendimento, allora ogni corso
online potrebbe semplicemente essere scaricato al primo collegamento,
oppure potrebbe essere inviato via posta su un CDROM.
3.3 Ma dal punto di
vista di queste riflessioni, la necessità della comunità sta
appunto nell’assenza del docente. E il terzo compito del tutor è
allora quello di attivare il processo di autogenerazione della
comunità dando ufficialmente ad essa il riconoscimento di luogo
deputato alla creazione di conoscenza, di valutazione, di supporto.
Per quanto paradossale possa sembrare, l’atto di nascita della
comunità d’apprendimento è il momento in cui il tutor affida le
funzioni di docente alla comunità stessa.
4
L’ingresso nella storia
4.1 Il che non
significa che a questo punto il tutor debba scomparire. Il termine
che si usa a volte (“fading”, cioè dissolvenza, con
riferimento ai “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland
Barthes) indica proprio che il tutor deve continuare ad essere
presente, ma con un controllo attento del proprio ingombro. Il tutor
online deve “tendere alla scomparsa” nel senso di non
ostacolare il cammino di crescita della comunità. Deve essere
presente più di prima come esperto cui chiedere supporto e
consiglio, ma da una posizione ormai ridefinita come autonoma e
originale rispetto a quella del docente, su un piano che non è
superiore a quello degli altri corsisti anche se se ne differenzia
(il tutor è coinvolto professionalmente nella comunità, e non a
titolo volontario). Il tutor a questo punto non guida, ma indirizza
su richiesta; non stimola, ma completa; non valuta, ma
fornisce elementi oggettivi di confronto. E’ una risorsa importante
di cui la comunità non deve privarsi nel momento in cui affronta la
sua vita quotidiana.
4.2 I tempi di
questi tre annunci possono essere molto diversi, corso per corso,
caso per caso. E’ responsabilità del tutor non solo portare gli
“annunci” che abbiamo visto sopra, ma anche monitorare il
suo gruppo per capire quando e se è il momento di agire. Il
tutor sa, o può immaginare, che il gruppo attraverserà prima una
fase di smarrimento in cui l’assenza del docente verrà percepita più
fortemente, e poi una in cui crederà di riconoscere nel tutor stesso
quel docente di cui sente la mancanza. Dovrà portare il gruppo a
riappropriarsi di alcune funzioni di gestione dell’apprendimento (che
prima erano di competenza del docente), per poi tornare a delegarle
all’esterno, riconoscendo in questo modo in maniera nuova la sua
funzione di tutor, legittimandolo.
Tutto questo per il
tutor dovrebbe essere noto fin dall’inizio, almeno come
scenario possibile. Non si tratta semplicemente di essere preparati e
avere gli strumenti per affrontare delle possibili crisi del gruppo,
ma di stimolare o procurare queste crisi al momento opportuno.
4.3 Non è detto,
infine, che questa teoria, e la strategia che ne deriva, debba e
possa essere resa esplicita dall’inizio. C’è una quota necessaria di
“interpretazione di un ruolo” (nel senso dell’inglese “to
play a role”) in ogni azione formativa. L’azione migliore può a
volte richiedere – proprio per la sua efficacia – che le sue
motivazioni siano nascoste. Questa è forse la parte più difficile,
che sembra violare un patto di trasparenza tra tutor e corsisti. Il
tutor online deve quanto meno valutare fino a che punto esplicitare
le ragioni dei propri atti, sapendo che questa stessa spiegazione è
un atto di per sé e avrà un impatto sul gruppo.
Ho letto su un quotidiano nazionale: “Stentano a decollare, invece, le verifiche online: solamente 1 su 4 ha già sperimentato interrogazioni o compiti in classe da remoto. ” Potrebbe essere utile allora ricordare che differenza c’è tra verifica e valutazione, e sottolineare che la valutazione dell’apprendimento online NON è la valutazione online dell’apprendimento.
Introduzione
Un
interesse sempre maggiore si concentra attorno ai temi della
valutazione delle performances di studenti (adulti e ragazzi) che
partecipano ad attività
di formazione a distanza, e più
in generale intorno alla questione della valutazione di tutto il
processo della formazione online.
La
questione è oggi in Italia di estrema attualità,
in un momento in cui operazioni istituzionali su larga e larghissima
scala rendono la formazione a distanza una metodologia concreta e
praticabile e non solo un oggetto di ricerca.
D’altro
canto, la globalizzazione del lavoro produttivo, oltre che dei
prodotti, porta ad una migrazione di studenti e professionisti da un
Paese all’altro, il che a sua volta comporta la necessità
di certificare competenze (per esempio quelle informatiche: vedi
ECDL, EUCIP, MOUSE etc.) in maniera omogenea, attraverso procedure di
attribuzione di crediti oggettive e standard, sia in presenza che a
distanza.
A
questa richiesta di valutazione non corrisponde però
ancora –
per quel che ci risulta – una pratica evoluta di valutazione online.
Al di là
della verifica attraverso test a risposta chiusa che ogni piattaforma
e-learning propone, e al di là
del relativo report dei punteggi raggiunti dai singoli corsisti, non
pare ci sia disponibilità
di strumenti più
raffinati; e questa limitatezza non può
non essere percepita da un formatore professionista, che spesso
considera – a ragione – la
valutazione come l’anello
debole
dell’e-learning.
La
ragione principale di questa diffidenza verso la valutazione online è
la ristrettezza
dell’orizzonte
del valutatore, che ha a disposizione pochi dati, e solo di tipo
quantitativo. Un docente abituato a giudicare complessivamente un
studente come persona ha certamente delle difficoltà di fronte ad un
nome collegato con una serie di numeri, senza un volto cui poterli
riferire.
In
particolare, questa difficoltà è sentita nelle discipline
umanistiche, settore in cui le stesse prove oggettive hanno molta
difficoltà ad imporsi anche in ambito tradizionale.
Le prove di valutazione oggettiva
I
dati utilizzati per la valutazione a distanza sono di solito
ristretti al numero di accessi, al tempo di connessione e ai punteggi
ottenuti nelle prove oggettive; dati che vengono –
probabilmente a ragione –
considerati insufficienti
sia per una valutazione dell’apprendimento dei singoli studenti, sia
per una valutazione complessiva, relativa all’andamento di tutta la
classe e del corso online nel suo complesso.
Più
in generale, ci
sono due limiti evidenti di questo tipo di prove.
1.
Raramente
nei corsi online sono previsti moduli per l’esecuzione di prove che
tengano effettivamente conto del fatto che lo studente si trova nel
momento del loro svolgimento davanti ad uno schermo di computer
connesso
ad Internet.
Questo
fatto non è necessariamente un limite, ma può essere una risorsa se
inserito esplicitamente nelle prove.
2.
Le
prove previste sono di solito rigorosamente individuali. Si
potrebbero però
immaginare prove oggettive in cui la strategia risolutiva deve tenere
conto dei dati parziali forniti dagli altri corsisti. Per esempio, un
test di lingua potrebbe basarsi, anziché
su dialoghi fittizi, su dialoghi reali tra corsisti connessi in chat.
Oppure, un problema complesso potrebbe richiedere la scomposizione in
sottoproblemi affidati a corsisti diversi e risolto mediante un
ambiente di collaborazione via web.
Sono
proprio queste due caratteristiche –
la connessione e la collettività
– che invece secondo noi fanno la specificità
dell’e-learning rispetto alla formazione in presenza o
all’uso di app per l’apprendimento
individuale.
Ignorare questi aspetti nella progettazione dei corsi (e quindi nella
progettazione della loro valutazione) è
mancare un’opportunità
importante di comprensione di un processo complesso come quello di un
corso online.
È
almeno
possibile
che anche nell’e-learning – dove i dati relativi alle performances
degli studenti sono sempre registrati dalla piattaforma – non
sia necessario
prevedere dei momenti di arresto e di valutazione esplicita: il tutor
umano, nel seguire il cammino dello studente e attraverso l’analisi
dei suoi comportamenti globali (unità
visitate, interazioni con gli altri corsisti, richieste d’aiuto),
potrebbe suggerirgli esplicitamente percorsi alternativi o fornire
informazioni ulteriori, possibilmente fornendo allo studente tutte i
dati su cui si è
basato per la decisione.
Cos’è la valutazione online
La
valutazione non va intesa come un’analisi che viene fatta a
posteriori né come un elemento aggiunto dall’esterno: essa è un
aspetto connaturato a qualsiasi processo educativo in quanto vuole
rendersi qualitativamente sempre più efficace. Questo vale in
misura ancora maggiore per la valutazione dell’apprendimeno online.
Le
premesse fondamentali da cui partiamo qui sono tre:
–
l’apprendimento del gruppo
è qualcosa di diverso dall’apprendimento dei singoli componenti. Un
gruppo in apprendimento è in qualche modo un organismo, con i suoi
ritmi, le sue strategie, il suo percorso, che non sono ricostruibili
semplicemente a partire dalla somma di quelli dei partecipanti. Le
competenze di un gruppo non sono uguali alla media delle competenze
dei singoli: un gruppo può essere capace di svolgere compiti che i
singoli separatamente non sono in grado di affrontare;1
–
la valutazione
dell’apprendimento del gruppo2
(attraverso un’analisi di tutti i dati disponibili), pur non
sostituendo quella del singolo corsista, consente di ottenere delle
informazioni fondamentali per la ri/progettazione del corso e la
gestione della didattica. La natura del digitale è tale da
permettere – e anzi richiedere – un continuo adattamento di un
corso online, che non è un oggetto fissato una volta per tutte come
un manuale, ma viene co-costruito dal docente insieme ai corsisti;
questo processo dinamico collettivo ovviamente non può non tenere
conto dei risultati della valutazione (e dell’autovalutazione) del
corso;
–
l’analisi dei testi prodotti all’interno dell’ambiente
di apprendimento, che siano testi stimolati dal tutor per essere
oggetto di valutazione o testi spontanei, è fondamentale. La
tonalità affettiva di fondo del corso, il clima (positivo o
negativo) che si è creato, la disponibilità dei corsisti alla
cooperazione, sono tutti elementi valutativi che ogni docente
utilizza per “aggiustare il tiro”, per modificare la
propria strategia didattica in corso d’opera; ed è proprio dalla
lettura dei messaggi, dalla partecipazione alla chat, dalla lettura
dei documenti inviati dai corsisti che il tutor online trae gli
elementi di giudizio.
Dati e tipi di analisi
A
causa della sua caratteristica di spazio
virtuale pubblico,
dove tutto ciò che avviene ha natura digitale, una piattaforma per
l’e-learning conserva tutti
i dati relativi a ogni tipo di interazione (tra studente e materiale
didattico, tra studente e studente, tra studente e tutor, etc).
Mentre nella formazione tradizionale il docente deve decidere quali
dati archiviare e quali, invece, lasciare che vadano persi, una
piattaforma e-learning registra quasi ogni “mossa” dello
studente, dal momento in cui si registra come utente della
piattaforma; il problema è
ovviamente la quantità
di tempo, e gli strumenti di analisi, necessari per leggere e
interpretare questi dati.
La
registrazione di dati bruti non si traduce automaticamente in una
disponibilità
degli stessi dati in un formato usabile da parte dei docenti preposti
alla valutazione. Perché
i dati siano significativi, occorre che siano archiviati e
organizzati in maniera intelligente e funzionale agli scopi.
Prima di tutto, è utile che le piattaforme forniscano dei report completi delle attività dei corsisti, ai corsisti stessi oltre che ai docenti.
Ogni
piattaforma e-learning che si rispetti permette almeno al tutor di
avere accesso ad un report che mostra per ogni studente:
– il
tempo trascorso online, globalmente e nei singoli ambienti
– il
numero di connessioni nell’unità
di tempo (settimana, mese), e il loro orario
Ma
un report di tutti i dati quantitativi
disponibili dovrebbe includere:
– il
numero e il tipo
di nodi visitati
– il
numero e il tipo di collegamenti
tra nodi attivati
– il
numero e il tipo di elementi multimediali
attivati
– il
numero di contributi originali inseriti (direttamente nel corso, dove
ciò
è
possibile, o nel forum etc)
– l’ampiezza
dei contributi inseriti
– il
numero di comunicazioni al tutor (email, messaggi interni) e dal
tutor
– il
numero di comunicazioni ai colleghi corsisti
etc
E c’è ancora un altro tipo di dati registrati dalla piattaforma che potrebbero essere resi disponibili in una forma sintetica al tutor e agli studenti, e cioè quelli relativi ai contenuti della comunicazione linguistica tra gli studenti, e tra gli studenti e il tutor:
– i
testi dei messaggi diretti inviati al tutor (richieste di aiuto, di
chiarimento, …)
– i
testi dei messaggi diretti inviati agli altri studenti
(interpretazioni, proposte di lavoro, …)
– i
nuovi testi inseriti dagli studenti tra i materiali del corso
– le
note e i commenti apposti alle unità
del corso
– i
testi degli appuntamenti in agenda
– i
testi delle chat
Questi
testi nel loro complesso costituiscono un patrimonio fondamentale di
proprietà del gruppo d’apprendimento. Se mai dovesse affermarsi
l’idea di un “e-portfolio di classe”,3
questo corpus ne farebbe parte integrante.
Anche
se probabilmente ogni tutor già utilizza tali testi (in maniera più
o meno consapevole) durante lo svolgimento del corso per una
valutazione qualitativa, la possibilità di effettuare
un’analisi quantitativa attraverso strumenti adeguati
renderebbe il loro compito più semplice ed efficace. I risultati
dell’analisi sarebbero cumulabili nel
tempo e standardizzabili. Sarebbe cioè
possibile tracciare una “curva modello” del percorso tipico
d’apprendimento di un certo corso online (vedi infra).
Se
ognuno di questi dati, presi singolarmente, può risultare abbastanza
sterile dal punto di vista della valutazione, incrociati invece
possono consentire di evidenziare degli aspetti importanti
dell’andamento del gruppo di apprendimento (vedi infra), in
particolare rispetto a tre dimensioni fondamentali della valutazione:
il
grado di partecipazione, di interazione e comunicazione tra i
partecipanti
il
grado di adesione al patto formativo e alle regole del gruppo
il
grado di interesse per il contenuto del corso
In
questo tipo di analisi l’oggetto della valutazione –
come sarà
ovvio per il lettore –
non è
più
il singolo corsista ma il gruppo classe nel suo complesso.
Purtroppo
questo tipo di analisi estemporanea è di solito affidata
completamente alle capacità soggettive del tutor, e non è
cumulabile nel tempo né standardizzabile.
Sarebbe
preferibile avere la possibilità di effettuare un’analisi
quantitativa, o ancora meglio più tipi
di analisi quantitativa.
[…]
Il modello di Evoluzione Normale
del Gruppo d’Apprendimento
Chiamiamo
Evoluzione Normale Gruppo d’Apprendimento il percorso che un gruppo
d’apprendimento (online) dovrebbe seguire in condizioni ottimali.
L’idea
chiave è che, a prescindere dall’applicazione di strumenti di
verifica di competenze sui singoli partecipanti, sia possibile
monitorare il buon andamento di un gruppo d’apprendimento
analizzando i suoi prodotti testuali se ci si basa su un’ipotesi di
andamento ottimale del gruppo al quale ogni concreta edizione di un
corso si approssima più o meno.
Questo
modello prevede che un gruppo in apprendimento non resti statico ma
abbia un’evoluzione in quanto gruppo;
che questa evoluzione porti il gruppo a controllare sempre meglio il
proprio rapporto con l’ambiente educativo in cui si trova (costituito
dalla piattaforma, dali materiali del corso, dagli strumenti di
interazione che sono a disposizione).
Il
controllo acquisito si esprime in una mutazione percepibile sul piano
linguistico. Il pratica, il gruppo evolve da una situazione di
partenza A in cui:
l’interazione
linguistica utilizza termini impropri, presi dal linguaggio comune,
ha
come oggetto le difficoltà comunicative
si
concentra sul linguaggio, sui termini anziché sui fatti
procede
per richieste continue
ad
una situazione-limite Z (non necessariamente raggiunta alla fine del
corso…) in cui:
il
discorso utilizza termini specialistici corretti
si
concentra sulle regole e sulla loro applicazione
propone
nuovi elementi informativi
riflette
sul lavoro fatto insieme
esprime
una soddisfazione generale per le attività svolte.
[…]
Il
punto chiave di tutte queste analisi, lo ripetiamo, è
lo spostamento del focus dal singolo corsista al gruppo di corsisti o
a tutta la classe.
L’apprendimento
del gruppo è qualcosa di diverso dall’apprendimento dei singoli
componenti. Un gruppo è
in qualche modo un organismo, con i suoi ritmi, le sue strategie, il
suo percorso, che non sono ricostruibili semplicemente a partire
dalla somma di quelli dei partecipanti.
Di
conseguenza, la valutazione dell’apprendimento del gruppo consente di
ottenere delle informazioni fondamentali per la progettazione e la
gestione della didattica.
E naturalmente le relazioni che si creano all’interno del gruppo, lo scambio di informazioni esplicite ed implicite tra i partecipanti, la consapevolezza condivisa dell’apprendimento diventano oggetti fondamentali per questo monitoraggio del cammino di un gruppo in apprendimento in quanto percorso di evoluzione in termini di linguaggio (lessico, strutture), di modalità di interazione, di consapevolezza a prescindere dalle competenze apprese dai singoli.
[…]
Conclusioni
Infine,
per dovere di completezza, dobbiamo citare il problema ancora aperto
della valutazione del corso nel suo complesso. Finché la
valutazione verrà confusa con la verifica, continueremo a ignorare
il fatto che la misura dell’apprendimento del singolo studente è un
elemento di un processo valutativo più complesso che ha per oggetto
tutto il processo educativo, e che coinvolge tutta la classe, ma
anche il docente, le risorse dell’istituto scolastico,
l’organizzazione degli spazi e dei tempi. D’altra parte anche i
manuali di valutazione scolastica più recenti insistono sul fatto
che la valutazione sistematica del processo formativo è fondamentale
ai fini della buona progettazione educativa.
Se
questo è vero in presenza, a maggior ragione un progetto di
formazione a distanza – ancora per certi versi così fragile nella
metodologia e incerto nei risultati – non può esimersi dal
comprendere la valutazione come un suo momento fondamentale. La
questione valutativa è cioè cruciale per l’e-learning forse ancor
più che per altre forme di educazione/apprendimento: laddove nella
formazione in presenza ci sono molteplici forme di controllo (e
motivi diversi di stimolo per gli studenti), nell’e-learning la
possibilità di seguire, monitorare, verificare e insomma valutare
l’intero processo tramite i dati forniti dalla piattaforma è l’unico
strumento di gestione della didattica.
Ma
c’è un’altra ragione: in una prospettiva costruttivista, qual è
quella che assumiamo implicitamente qui, non è possibile non
riconoscere un ruolo attivo dello studente non solo nella creazione
dei propri schemi mentali, ma fino alla modifica dell’ambiente
(digitale) nel quale apprende. Significa riconoscere che apprendere
non è solo adattarsi, ma anche adattare l’ambiente.
L’ipotesi psicologica sottostanteè che l’apprendimento non sia una semplice acquisizione di informazioni, ma un processo evolutivo, che vede coinvolti un ambiente e un soggetto. C’è apprendimento quando il soggetto progredisce nel controllo, cioè acquista una padronanza sempre maggiore dell’ambiente, fino a modificarlo. In un ambiente educativo questo passaggio del controllo è, a sua volta, regolato, e anzi progettato esplicitamente perché l’ambiente progressivamente ceda il controllo al soggetto. Per inciso, la valutazione, da questo punto di vista, coincide con un’analisi del processo dal punto di vista del passaggio del controllo. Si traduce nel tentare di dare risposta ad una serie di domande: c’è stato questo passaggio, oppure lo studente è restato ancorato al livello iniziale? Ed è stato continuo, fluido, o troppo brusco? Anticipato, o tardivo? In tutti i soggetti nello stesso momento, o ognuno secondo il proprio ritmo? Ci sono stati dei plateaux e dei gradino, o un climax continuo? E così via.
Questo
processo di appropriazione, interiore quanto oggettivo, ha una
rappresentazione fedele – nel caso dell’apprendimento di un soggetto
collettivo – sul piano del linguaggio che lo accompagna.
Ma allora per capire se c’è stato apprendimento non si deve andare a verificare solo il soggetto (o la classe) ma tutto l’ambiente in cui il processo si è svolto, per andare a valutare come e quanto questo sia cambiato. Non si può valutare l’apprendimento di un soggetto senza andare a valutare l’ambiente in cui il processo si è svolto. E’ stato modificato o è rimasto tale e quale?
Allora
la valutazione online non può non riguardare anche il corso, inteso
come ambiente costruito per facilitare l’apprendimento.
Non
solo perché performances scadenti di tutti, o di una larga parte
degli studenti, non possono che essere attribuiti al corso, o nella
migliore delle ipotesi ad un errore di specifica dei prerequisiti di
ingresso, ma perché la stessa valutazione dello studente non sarebbe
completa senza l’analisi di come il corso è stato adattato,
modificato, personalizzato dallo studente e dalla classe nel suo
complesso. Questa modifica è parte integrante del processo di
apprendimento, e non un suo effetto collaterale.
Abbiamo
visto in che modo il tutor può servirsi dei dati messi a
disposizione da una piattaforma di elearning per valutare l’andamento
di un corso online in alcune aree: l’interazione e comunicazione
tra i partecipanti e l’acquisizione del controllo dell’ambiente
educativo.
Se
nessuno degli strumenti descritti può essere visto come una
soluzione definitiva al problema della valutazione dell’apprendimento
online di un gruppo, un uso intelligente e integrato di essi permette
al tutor (e ai corsisti) di avere a disposizione degli indicatori
significativi, condivisibili e quantificabili, di alcuni parametri
fondamentali del processo di apprendimento del gruppo.
In
conclusione, rinunciare alla valutazione di un corso online è
rendere un cattivo servizio agli studenti.
Limitarsi
a considerare solo i dati relativi alle prove oggettive standard è
ignorare la natura cooperativa e dinamica di ogni corso.
Analizzare
i dati relativi all’interazione linguistica tra corsisti e tutor ci
sembra invece un modo interessante, e nuovo, di aggiungere elementi
per la valutazione del processo di apprendimento dell’intera
classe, in quanto diverso dalla semplice media degli apprendimenti
dei singoli corsisti.
(Quella che avete appena letto è una sintesi di un materiale per la formazione docenti INDIRE del 2006. Sono state espunte le parti più tecniche e i riferimenti agli strumenti; restano le intuizioni più visionarie o ingenue, a seconda dei punti di vista)
1
Il riferimento teorico è qui ovviamente il Cooperative Learning.
Per una visione d’insieme, si può leggere questo recente testo di
Mario Martinelli In gruppo si impara, Torino, SEI, 2004.
2
L’autovalutazione di gruppo nell’apprendimento in presenza è ancora
prassi relativamente relativamente nuova anche nella formazione in
presenza. Vedi D.W.Johnson, R.T.Johnson, E. Holubec, Apprendimento
cooperativo in classe, Trento, Erickson, 1996.
(Questo articolo ripropone con minime modifiche il Capitolo 1 del testo omonimo, scritto in collaborazione con Morena Terraschi e pubblicato da Anicia nel 2000. Sì. Avete letto bene.)
Ambienti digitali per l’apprendimento
Bisogna essere onesti: la formazione a distanza ancora non convince completamente. Al di là di chi è contrario per principio (gli umanisti che ne temono la freddezza, i luddisti che ci vedono un attacco alla categoria dei formatori), anche chi è stato entusiasta all’inizio comincia ad essere critico e a non vedere più solo gli aspetti positivi. Questo è senz’altro un bene, perché un atteggiamento acritico e un ottimismo generalizzato hanno permesso di catalogare sotto la voce “formazione a distanza” metodi, tecniche e ambienti molto diversi tra loro, qualche volta anche poco convincenti.
Ma al di là dei limiti della tecnologia, che sono
sempre superabili (così almeno dicono i tecnologi…), la domanda di
fondo resta questa: siamo sicuri che si possa davvero imparare
qualcosa a casa propria, senza un libro e senza la presenza di un
vero insegnante, ma soli davanti ad un computer?
È una domanda ingenua, se si vuole, ma non bisogna aver paura di
porla. Se il vestito dell’imperatore è una truffa, o nel migliore
dei casi un’illusione collettiva, meglio saperlo subito.
A chi sottoporre la questione? Alla pedagogia,
naturalmente, anzi alle pedagogie.
I modelli pedagogici prevalenti in questi ultimi
cinquanta anni (comportamentismo, cognitivismo, costruttivismo) hanno
diversamente descritto il rapporto tra soggetto che apprende e
ambiente di apprendimento. Ognuno di questi modelli ha informato di
sé la maniera di utilizzare i computer in campo educativo. Anche
oggi, ogni software didattico può essere rapportato all’uno o
all’altro modello, anche a prescindere da quello che ne dicono gli
autori
Facciamo un breve riassunto.
Per il comportamentismo, che negli anni ’50 in
nome della scienza sperimentale tentava di espungere l’introspezione
e tutta la psicologia che sapeva troppo di “metafisica
ottocentesca” dalla teoria dell’apprendimento, il soggetto è una
scatola nera di cui non si può sapere nulla. Non ha senso parlare di
mutamenti interni del soggetto perché non abbiamo un mezzo per
verificarne la presenza; quello che si può fare è modificare la
maniera in cui il soggetto interagisce col mondo esterno. Gli effetti
dell’apprendimento sono misurabili con test oggettivi, e questa è
la sola cosa che interessa.
Il computer è usato dal comportamentista come
macchina per somministrare informazioni e batterie di test.
Molti sistemi di FaD sono ancorati a questi solidi
presupposti, a dispetto delle pretese di modernità accampate con
l’uso di effetti speciali o di agenti software intelligenti. In
questa visione, è sicuramente possibile apprendere qualcosa con un
computer, anzi le garanzie di standardizzazione dell’informazione
che l’informatica offre sono largamente sufficienti e insuperabili.
Per il cognitivismo, che ritiene eccessivamente
modesta la proposta del comportamentismo, possiamo invece parlare di
come, in seguito ad un apprendimento, sia venuta a modificarsi la
rappresentazione interna nel soggetto. Apprendere significa
arricchire il proprio patrimonio di conoscenze sia in termini di
nuovi dati, sia – e soprattutto – in termini di ristrutturazione dei
dati presenti attraverso la creazione di nuovi schemi che strutturano
quei dati.
Il cognitivismo ha permesso di far partire molti
progetti di ricerca sulla simulazione del ragionamento e
dell’apprendimento all’interno di una macchina digitale. L’uso
di mappe grafiche per la rappresentazione di ambiti concettuali
complessi, mappe che non sono solo presentazioni per l’occhio umano
ma anche grafi percorribili da un algoritmo, è un buon esempio –
per quanto raro – di come una riformulazione adeguata di conoscenze
sia a sua volta un atto che produce conoscenza.
Comportamentismo e cognitivismo, per quanto opposti fra loro, hanno però in comune una concezione statica dell’apprendimento, in cui se il soggetto cambia, lo fa soltanto all’interno dell’universo mentale, mentre l’ambiente in cui avviene l’apprendimento resta immutato. Sembra un’ovvietà, ma non lo è.
Come scrivevamo in un testo di qualche tempo fa:
“L’analisi tradizionale dell’educazione individua due elementi separati: l’io ed il mondo esterno. Questi elementi sono opposti, tanto sul piano morale che su quello conoscitivo. Dal punto di vista etico, si ha da una parte la soggettività irriducibile del bambino, sospinto dal principio di piacere, e dall’altra la società degli adulti, regolata dalla morale del dovere. Dal punto di vista conoscitivo, si ha una coscienza “tabula rasa” da un lato, e la totalità delle conoscenze che sono patrimonio della scienza dall’altro.
Per conciliare la differenza tra i due elementi si inserisce tra di essi la mediazione di un istituto educativo (la scuola), i cui costituenti (docente, libri, etc.) devono servire a portare il soggetto verso l’accettazione delle leggi morali e scientifiche del mondo esterno. La scuola è quindi, da un punto di vista teorico, un deus ex machina che permette di unificare due concetti pensati come opposti.” (Io bambino, tu computer, Anicia, 1993)
L’educazione sarebbe, da questo punto di vista,
il tentativo di controllare dall’esterno l’apprendimento meglio
di quanto possa accadere naturalmente, attraverso la creazione di
ambienti artificiali (la scuola, la bottega) o di strumenti che
accelerino il processo (il libro, i software didattici, i sistemi per
la FaD).
Nel costruttivismo, il terzo grande filone della pedagogia moderna, non si può parlare di apprendimento a prescindere da tre elementi: il soggetto, il contesto e il tempo. C’è sempre un chi, un dove e un quando dell’apprendimento: l’apprendimento è sempre situato.
Ma soprattutto, il costruttivismo abbandona tutte le metafore di tipo “fotografico”: la conoscenza non viene acquisita, cioè ricopiata dentro la mente, ma elaborata dalla mente. E naturalmente ogni elaborazione è personale e originale.
C’è un Apprendimento con la A maiuscola, che è
quello cui di solito si pensa, codificato in momenti specifici della
vita e a volte in luoghi specifici (la scuola, la bottega).
E c’è poi un apprendimento con la a minuscola,
che è quello che avviene tutti i giorni, e che coinvolge tutti, e
che è semplicemente il processo con il quale un organismo acquisisce
nuove informazioni, le fa proprie e le riusa per adattarsi meglio
all’ambiente.
Tutti apprendiamo in continuazione, i bambini come
gli adulti, a scuola come per strada. I bambini, certo, sono
professionisti dell’apprendimento; si può anzi dire che apprendere
è il loro modo naturale di porsi di fronte al mondo; ma questo non
vuol dire che l’apprendimento sia un loro appannaggio esclusivo.
Forse si può dire che l’apprendimento non è
nemmeno un comportamento così tipicamente umano come ci piacerebbe
pensare. Non soltanto gli animali apprendono, ma anche le piante e i
batteri, e insomma tutti gli esseri viventi in quanto modificano il
loro comportamento costruendo schemi nuovi che funzionano meglio di
quelli precedenti. Provate a immaginare…
Una festa. Dal buio e freddo
esterno entri in un locale chiuso, ti togli il cappotto, e cominci a
percepire colori, forme, suoni.
I suoni si precisano: lingua parlata (la tua?), voci che si
precisano in parole, e che cominciano a costituirsi in frasi.
Anche le immagini
si precisano: da semplici zone chiare e scure acquistano colori, si
catalizzano in oggetti, o in corpi e volti di persone, e alcuni di
questi in volti conosciuti di amici.
La situazione
diventa sempre più strutturata: di là il buffet, qui il divano con
un posto vuoto, in fondo la finestra resa famosa da Nanni Moretti in
uno dei suoi primi film.
Contemporaneamente, l’ambiente si
modifica. Individuata una sedia libera ti siedi, e quel posto vuoto
non c’è più, il gruppo di persone che ti pareva più interessante
cambia di composizione, cominci a parlare e l’argomento della
conversazione cambia con il tuo intervento nel discorso.
Altre persone entrano nella stanza, e percepiscono l’ambiente
diversamente, anche a causa del mutamento prodotto dalla tua azione.
Questa storia si può raccontare da molti punti di
vista: quello della sociologia (le interazioni tra i gruppi di
individui), quello della psicologia della percezione
(l’organizzazione dei dati sensoriali), quello dell’antropologia
(i ruoli assunti). La pedagogia ne sceglie uno specifico, che
consiste in un’attenzione alla maniera in cui il soggetto
acquisisce il controllo dell’ambiente.
L’apprendimento non è un fenomeno particolare, ma la descrizione di un processo da un punto di vista particolare. E la pedagogia, come scienza dell’apprendimento, racconta la maniera in cui il soggetto acquisisce il controllo dell’ambiente.
Man mano che il soggetto procede la sua esplorazione dell’ambiente acquista nuove capacità e potenzialità; dal canto suo l’ambiente stesso viene realmente a mutare nel corso del processo, assoggettato a nuove leggi introdotte dal soggetto. Avete letto bene: nell’apprendimento non si modifica solo il soggetto, ma anche l’ambiente.
L’umanità ha scoperto da tempo che utilizzare degli ambienti appositamente progettati per cedere il controllo ai soggetti è più efficace e più sicuro che lasciare i soggetti imparare da soli nel mondo “adulto”. La bottega, la scuola, il libro sono esempi di questo tipo di ambienti “a orologeria”.
Allo stesso modo, un ambiente digitale per l’apprendimento è tale proprio perché consente, e anzi invita, lo studente a modificarlo per renderlo più controllabile. Un ambiente di apprendimento digitale è progettato per cedere il controllo in maniera progressiva, fino ad abdicare nei confronti del soggetto che apprende. Se resta sempre uguale, non è educativo – cioè non permette apprendimento.
Torniamo alla FaD.
Parlare di Formazione a Distanza sembra implicare
due premesse:
che la FaD sia appunto un caso particolare di
formazione;
che la caratteristica principale della FaD
sia il suo svolgersi tra soggetti (docenti e studenti) che
fisicamente non si trovano a condividere lo stesso spazio.
Questi due presupposti apparentemente innocenti
sono in realtà pieni di implicazioni pesanti.
1. La FaD è un caso particolare di formazione?
“Formazione” è un termine dinamico che porta con se l’idea di un soggetto che non possiede la forma, ma che la riceve da qualcuno. Formare è d’altronde un verbo transitivo, e il formatore è colui che possiede la forma e che plasma – platonicamente – la materia cognitiva bruta del discente per precisarla e definirla. La FaD, secondo questa interpretazione, dovrebbe permettere ad un formatore di rendere oggettiva la forma che possiede e applicarla ripetutamente a soggetti diversi. Invece è chiaro che la FaD è portatrice delle istanze di personalizzazione dell’apprendimento, che è un processo guidato dallo studente più che dal docente (che infatti, più frequentemente, viene denominato tutor). Se c’è ancora chi interpreta la FaD come un artificio tecnico che permette di organizzare una serie di lezioni in videoconferenza, la quasi totalità dei sistemi FaD sono invece veri ambienti di gestione della conoscenza, dotati di funzioni di ricerca, indicizzazione, generazione di percorsi personalizzati, comunicazione.
2. La caratteristica principale della FaD è il suo svolgersi a distanza?
Questo implicherebbe che i benefici che è lecito attendersi sono solo di riduzione dell’attrito, per così dire, cioè di eliminazione di tutti gli ostacoli esterni (fatica, dispendio di tempo e risorse) che mettono in pericolo lo svolgersi tranquillo di un processo formativo tradizionale. Ma se è vero che un processo di FaD può svolgersi anche a distanza, questo non implica affatto che debba svolgersi solo a distanza. Se pensiamo a situazioni geografiche come quelle canadesi o finlandesi, dove clima e distanza rendono infinitamente più conveniente attivare corsi online anziché in presenza, questo significato si impone come l’unico possibile.
La FaD ha modi e caratteri suoi propri, che hanno
senso indipendentemente dalla collocazione fisica degli attori.
Noi non pensiamo che questa collocazione della FaD
come caso particolare – limitato dal suo svolgersi attraverso uno
spazio significativamente esteso – della formazione tradizionale sia
la maniera più corretta di pensarla. La
FaD è un processo originale, per certi versi parallelo alla
formazione, che richiede un ripensamento dei ruoli (studenti e
docenti), delle strategie di insegnamento/apprendimento e di quelle
di valutazione.
La caratteristica che ci sembra più propria dei processi di apprendimento digitale è il fatto che essi si basano su (e in parte costruiscono), un supporto condiviso, un piano del discorso comune dove tutte le interazioni si svolgono. Questo piano è, per la sua natura digitale, accessibile indipendentemente da tempo e spazio. E’ un piano dove i soggetti costruiscono insieme conoscenza, dove simulano la realtà attraverso dei modelli e verificano l’aderenza dei modelli alla realtà. Che si tratti di una realtà fisica o linguistica, non cambia poi molto.
Anche per sottolineare questa originalità della FaD noi preferiamo parlare di apprendimento digitale (che ci sembra la migliore traduzione italiana possibile di e-learning): non un apprendimento del digitale, ma un apprendimento che si svolge all’interno di un ambiente che è prima di tutto digitale, poi (forse) anche mediato dalle reti e dai protocolli delle telecomunicazioni.
Le implicazioni di questa caratterizzazione forte della FaD come apprendimento digitale sono fortissime per tutte le questioni relative alla valutazione: se tutto passa attraverso la piattaforma, e viene registrato, il docente ha a disposizione una quantità di dati enorme su cui applicare l’analisi valutativa. Non serve necessariamente interrompere il processo di apprendimento con dei test, ma si può valutare in maniera continua, in maniera realistica a partire dalle azioni degli studenti.
Ma più importanti ancora ci sembrano le conseguenze sul piano dell’apprendimento: la conoscenza presente in un corso non si esaurisce con quella prevista dal suo autore e codificata nelle unità del corso. Anche gli studenti e i tutor possono aggiungere (o modificare) le informazioni originali. Cosa che di solito avviene anche in un corso in presenza; solo che in quel caso di tutto questo lavoro ulteriore di costruzione non resta traccia, mentre in un corso online tutte le aggiunte sono conservate insieme all’originale.
Provate a pensare ad un corso come ad una
pellicola in cui il fotogramma 1 contiene le informazioni fornite
dall’autore, il fotogramma 2 contiene le modifiche e le aggiunte
fatte dagli studenti il primo giorno, e così via per tutti i giorni
in cui il corso è stato attivo. Il corso in senso proprio è
costituito non dal primo fotogramma, e nemmeno dall’ultimo, ma
dall’insieme di tutti i fotogrammi (il film). Un insieme che
con strumenti adeguati potrebbe essere “proiettato” oppure
semplicemente analizzato per estrarne ulteriori informazioni: lo
stile cognitivo dei partecipanti, la maniera di affermarsi delle idee
migliori, il processo evolutivo che rende certi concetti inadeguati e
altri vincenti, e così via.
Probabilmente, in un futuro vicino il termine
“formazione” tout court coinciderà con la FaD, e solo pochi
potranno permettersi una vera formazione in presenza, che verrà
vista come un caso particolare di FaD non digitale.
Cosa significa “capire un testo”? Sono più importanti le conoscenze sull’argomento (il background) oppure quelle sintattiche? Conoscenze o competenze? Quanto conta la capacita di analizzare un testo alla ricerca di segnali conosciuti, o la capacità di astrarre strutture da frasi anche quando non si conoscono tutte le parole? O di cogliere analogie e immaginare varianti possibili? Quanto è importante fare esercizi di questo tipo?
Roba vecchia trita e ritrita, sui cui sono stati fatti infiniti studi ma su cui molti, a mio parere, parlano un po’ a casaccio. Più difficile avere un’opionione quando si parla di linguaggi di programmazione e di lettura di codice sorgente. Che però è un’attività reale, utile e molto comune. I programmi non solo si scrivono e si eseguono, ma si leggono. Sapere leggere un codice sorgente è un’abilità (o competenza?) fondamentale. Magari poco studiata. Facciamo un esperimento. C’è un lettore medio a cui viene presentato un testo. Senza spiegazioni, senza commenti, senza contesto. Un po’ come si fa con gli esercizi di italiano. Il testo è il seguente:
Supponiamo che il lettore non abbia conoscenza approfondita di programmazione, ma conosca la matematica. Per esempio, che conosca il significato di funzione e di parametro, e il significato di tipo di parametro. Potrebbe capire che: – def è la dichiarazione di una funzione, il cui nome è trovaNano – i parametri di questa funzione sono due: nano e setteNani – i parametri di questa funzione hanno un tipo: una stringa il primo e una lista di stringhe il secondo. Questo è un suggerimento sull’uso futuro di questo funzione: dovremo stare attenti a passargli dei dati che corrispondano a questi tipi – il tipo del valore di ritorno (il risultato) è un altro suggerimento: la funzione restituisce true o false, quindi è una specie di test.
Il corpo della funzione è costituito dalla parte dopo l’uguale:
setteNani.contains(nano)
Anche qui, senza particolari conoscenze, il lettore arriva a capire che – contains è una funzione già presente nel linguaggio, o definita altrove. – contains viene applicata ai due valori passati alla funzione, in un modo bizzarro ma che corrisponde abbastanza alla sintassi delle lingue naturali (soggetto-verbo-complemento). Insomma: la funzione controlla se nano (che è il valore passato al primo parametro) è contenuto nella lista setteNani (il valore del secondo parametro) e restituisce true o false a seconda dei casi.
Può insomma immaginare come si userebbe questa funzione. Qualcosa di questo tipo:
di sicuro non sarebbe stato lo stesso, no? Quanto è importante la conoscenza dell’inglese e della sua sintassi? Un po’. Almeno contains qualcosa ci ha detto. Quanto la conoscenza di altri linguaggi formali? Se non si ha idea di cosa sia una funzione, e che una funzione ha bisogno di parametri e che restituisce un valore, non si capisce nulla. La matematica qui aiuta.
Lo stesso lettore, in seguito, si trova di fronte quest’altro testo:
def trovaNanoF(nano: String, setteNani: List[String]): Boolean = {
(
for (n <- 0 to 6
if setteNani(n) == nano
) yield "trovato"
).contains("trovato")
}
La lettura è un bel po’ più faticosa. Bisogna arrivare fino alla fine, magari rileggere più volte. La prima riga è quasi uguale, salvo che il corpo della funzione stavolta è su più righe, inserite tra parentesi graffe {}. Questo non dovrebbe essere un problema per il lettore, che è abituato alle parentesi. Poi c’è una paroletta magica, che il lettore avrà magari incontrato altrove: for. For si usa in quasi tutti i linguaggi per eseguire un ciclo, cioè una serie di operazioni ripetute. Si capisce facilmente cosa fa questo ciclo: conta da 0 a 6, e per oguno dei nani della lista setteNani controlla che sia uguale al nome del nano passato alla funzione; se si, il ciclo restituisce “trovato”. Qualche dubbio potrebbe esserci su quel doppio uguale (==) e sulla paroletta yield, che è si inglese, ma non proprio comunissima come for e if. Magari un dizionario inglese aiuta: raccogliere, rendere, produrre. Se il lettore conta le parentesi tonde, si accorge che la parentesi che si apre prima di for viene chiusa dopo yield “trovato”. Dopo c’è una parola che ha già incontrato (contains) e di cui ormai sa il significato (un test che verifica se un valore è presente in una lista). Ecco spiegato l’arcano: for produce una lista, e contains verifica che ci sia “trovato” in quella lista.
Il lettore curioso si domanda: perché usara una lista come risultato? E anche: perché scrivere una funzione di sette righe quando se ne poteva usare una di una riga sola? Beh – si potrebbe rispondere il lettore in quel dialogo interno che è così importante nella lettura – perché avremmo potuto usare la funzione anche con una lista un po’ ingrossata di nani:
E avremmo potuto inventare una variante in cui yield restituisca non vero o falso, ma un numero, cioè l’ordine del nano (o dei nani) trovati nella lista:
def trovaNanoF(nano: String, setteNani: List[String]): Seq[Int] = {
for (n <- 0 to 8
if setteNani(n) == nano
) yield n
}
Quanto è stata difficile la comprensione? Non è tutto chiaro, ma insomma il grosso si capisce. Almeno per chi abbia già letto o scritto codice in altre occasioni. Senza una conoscenza pratica di for e if, senza la capacità di fare analogie o di immaginare varianti… mmmh.
Infine, l’intrepido lettore si imbatte in questo testo:
def trovaNanoR (nano: String, setteNani: List[String]): Boolean = {
setteNani match {
case List() => false
case unNano::altriNani if unNano==nano => true
case _::altriNani => trovaNanoR(nano,altriNani)
}
}
Avendo letto i testi precedenti (che ora fanno parte del background), il lettore può immaginare che la funzione faccia qualcosa di simile alla precedente, ma stranamente senza usare cicli. L’inglese non ci aiuta molto (match? case?). Cosa è quel List()? Se ha sviluppato una capacità di vedere le strutture facendo astrazione dai contenuti, il nostro lettore andrà a cercare frasi che hanno un andamento regolare, con ripetizioni. Magari ipotizzerà che è stata usata una struttura sintattica formata da:
X match {
case a => ...
case b => ...
}
Vedere questa struttura però non è facile, almeno se non si ha un editor che evidenzia la sintassi con i colori. Come non è facile intuire cosa faccia se non se ne ha un’idea precedente. Ancora più difficile è fare ipotesi di interpretazione del simbolo :: o della sequenza _:: E poi una stranezza: all’interno del corpo della funzione è riportato il nome della funzione stessa (trovaNanoR), il che sembra un errore o almeno un paradosso. Come fa una funzione ad essere definita sulla base di se stessa? E dove è la parte che dice che la funzione restituisce qualcosa?
Insomma senza una conoscenza specifica di questo linguaggio (che, per soddisfare la vostra legittima curiosità, è Scala), o almeno di altri linguaggi funzionali, e della ricorsività, il lettore non sarà in grado di seguire il discorso, non sarà in grado di verificare se la funzione contiene errori prima di eseguirla. Anche se ha capito come si usa la funzione e che risultato produce. Insomma ha una comprensione solo parziale, che gli permetterà di usare la funzione ma senza averla capita e senza poterla modificare e adattare a contesti diversi.
Cosa se ne conclude? Che parlare di conoscenze e competenze nella lettura è una cosa complessa e che non si risolve in quattro righe su un giornale.